La Lefort aveva a Parigi un gran numero di conoscenze importanti. In meno di sei settimane fui presentata a più di venti suoi amici, i quali, però, non riuscirono a concludere nulla per raccogliere la primizia della mia verginità. Fortuna che Madame Lefort era talmente abile nell’amministrare i propri affari, che riusciva addirittura a farsi pagare di più per un lavoro che risultava davvero impossibile. Un giorno, per esempio, credetti che un famoso medico della Sorbona, che si ostinava a voler riguadagnare i dieci luigi che aveva sborsato, o morisse là per là, o riuscisse a spezzare l’incantesimo.
Questi venti “atleti” furono seguiti da più di cinquecento altri, in uno spazio di circa cinque anni. Il Clero, la Milizia, la Magistratura, la Finanza, mi fecero mettere, di volta in volta, nelle più strane posizioni: fatiche inutili; il sacrificio si consumava sempre alla porta del tempio dove la punta del coltello si smussava e la vittima non poteva essere immolata.
Alla fine, questa resistenza della mia verginità cominciò a fare troppo scalpore, e finì per arrivare alle orecchie della polizia, che minacciò di far cessare queste prove a ripetizione. Ne fui avvertita in tempo: ritenemmo, Madame Lefort e io, che fosse prudente eclissarsi per qualche tempo in un posto a una trentina di leghe da Parigi. Nel giro di tre mesi il fuoco si smorzò. Uno degli stessi emissari della polizia, amico e compare di Madame Lefort, si incaricò di calmare le acque dietro un compenso di dodici luigi d’oro. Ritornammo dunque a Parigi, piene di nuovi progetti.
Mia madre, che per lungo tempo aveva insistito affinché mi sottoponessi al bisturi, aveva cambiato completamente idea; ora scorgeva, in questa mia irregolare conformazione, un fondo di guadagno inesauribile, che poteva produrre un grosso frutto senza essere coltivato e senza temere erbacce: niente bambini, niente seccature ecclesiastiche. In quanto ai piaceri, mia cara Thérèse, mi cibavo, per necessità, di quelli di cui tu ti accontenti su consiglio della ragione».
«Nello stesso tempo», proseguì la Bois-Laurier, «decidemmo che era il caso di cambiare vernice e di tentare nuove strade. Arrivando dal nostro esilio volontario, il primo pensiero fu di traslocare, e senza dir parola al Presidente ci trasferimmo nel Faubourg Saint Germain.
La prima persona che conobbi lì fu una Baronessa che in giovinezza aveva lavorato con profitto al servizio dei piaceri della gioventù libertina d’accordo con una Contessa sua sorella, che successivamente era diventata direttrice di casa di un ricco americano, al quale prodigava i resti delle sue bellezze sfiorite, facendoglieli pagare ben oltre il loro giusto valore. Un altro americano, amico di quello, mi vide e si innamorò: in breve, ci mettemmo insieme. La confidenza che gli feci circa la mia situazione, invece di respingerlo, lo incantò. Il pover’uomo aveva preso l’abitudine di masturbarsi: lo assicurai subito che, in mano mia, non avrebbe più dovuto temere di ricadere in questo vizio.
Il mio nuovo amante, diciamo così, d’oltremare, aveva fatto voto di limitarsi ai piaceri della vista; vi aggiungeva, però, nell’esecuzione, un tocco singolare. Il suo più grande piacere consisteva nel farmi mettere seduta accanto a lui su un sofà, denudata fino all’ombelico, e qui, mentre impugnava scuotendolo leggermente il rampollo della radice del genere umano, dovevo avere la compiacenza di sopportare che la mia cameriera mi tagliasse contemporaneamente alcuni peli del pube. Senza questo bizzarro apparato, credo che nemmeno la forza di dieci braccia come le mie sarebbe stata sufficiente a far drizzare il macchinario del mio uomo, e ancora meno a farne uscire una goccia di elisir.
Nel numero di questi uomini così fantasiosi era da includere anche l’amante di Minette, terza sorella della Baronessa. Questa ragazza era alta, con dei begli occhi, abbastanza ben fatta: era però sudicia, scura di pelle, sgarbata e civetta. Fingeva spirito e sentimenti senza possedere né l’uno né gli altri. In compenso aveva una bella voce, e ciò le aveva procurato un certo numero di corteggiatori. Quello attualmente in carica non si eccitava altro che per quest’ultima virtù: un solo accenno della voce melodiosa di questo Orfeo in gonnella riusciva a far diventare duro il marchingegno del suo amante, e di eccitarlo al colmo del piacere.
Un giorno, dopo aver organizzato fra noi tre uno di quei pranzi che vengono definiti “libertini”, durante il quale ci eravamo messi a cantare (mi avevano anche abbondantemente presa in giro sulla particolarità della mia…), dopo aver detto e fatto le cose più folli che si possano immaginare, ci buttammo tutti a gambe all’aria su di un grande letto. Lì, mettemmo in mostra le nostre bellezze, e le mie furono trovate ammirevoli per la loro proporzione. A un certo punto l’amante di Minette passa all’azione: la sistema sul bordo del letto, la tira su, la penetra e quindi la prega di mettersi a cantare. La docile Minette, dopo un piccolo preludio, intona un’aria a tre tempi diversi; l’amante parte, spinge e rispinge a tempo, le sue labbra sembrano battere le cadenze finché i suoi colpi di natiche scandiscono perfettamente il ritmo. Distesa su quello stesso letto, io guardo e ascolto ridendo fino alle lacrime. Tutto andava per il meglio, quando la voluttuosa Minette, cominciando a prendere gusto alla cosa, scivola sul falsetto, stona, perde il ritmo: le esce di bocca un bemolle invece di un bequadro.
“Ah, cagna!”. Grida su tutte le furie il nostro appassionato di buona musica. “Povero il mio orecchio ferito! La tua stecca mi è penetrata nell’anima, e l’anima se n’è andata. Tieni”, aggiunse scostandosi, “guarda l’effetto del tuo maledetto bemolle: è diventato proprio molle, povero diavolo!”.
In effetti, quell’arnese che aveva battuto così bene il tempo era ridotto a poco più di uno straccio.
La mia amica, disperata, fece degli sforzi indescrivibili per rianimare il suo compagno, ma i baci più teneri e le carezze più lascive furono spesi invano: non riuscirono a ridare durezza alla parte che languiva.
“Ah, mio caro amico”, gridò allora lei, “non abbandonarmi! È stato il mio amore per te, è stato il piacere a scombussolarmi tutta! Manon, mia cara Manon, dammi una mano! Mostragli la tua bestiolina: gli renderà la vita, e la renderà anche a me, perché morirò se non finisce. Mettiti là, mio caro Bibì”, disse quindi al suo amante, “mettiti in quella posizione voluttuosa come fai qualche volta con la Contessa mia sorella. L’amicizia che Manon ha per me mi garantisce la sua compiacenza”.