Circa due ore dopo mi svegliai, sempre con la mia cara colonna tra le cosce, distesa sul ventre, le natiche nude. Questa posizione mi sorprese, e mi tornò in mente quello che era successo, come si ricorda l’immagine di un sogno. Pure, mi sentivo più tranquilla. L’evacuazione della celeste rugiada mi aveva liberato lo spirito, tanto che feci alcune riflessioni su tutto ciò che avevo visto nella camera di Eradice e su quanto era appena passato dentro di me, senza però riuscire a trarne nessuna conclusione ragionevole. La parte che avevo strofinato lungo la colonna – così come l’interno delle cosce con cui l’avevo abbracciata – mi faceva un male terribile: vi gettai uno sguardo malgrado gli ammonimenti del mio antico direttore del convento, ma non osai portarvi la mano, dal momento mi era stato troppo espressamente proibito.
Terminato questo esame, la cameriera di mia madre venne ad avvertirmi che erano giunti Madame C… e Monsieur l’Abate T…, invitati per colazione. Mia madre mi ordinava di scendere per far loro compagnia: obbedii e li raggiunsi.
Era qualche tempo che non vedevo Madame C… sebbene ella avesse molta amicizia per mia madre (alla quale aveva reso grandi favori), e nonostante la reputazione di donna molto pia, a causa delle sue aspre critiche agli insegnamenti e alle esortazioni mistiche del Padre Dirrag avevo dovuto smettere di frequentarla proprio per non contrariare il mio direttore, che su questo argomento non ammetteva discussioni. Egli non voleva affatto che il suo gruppo si confondesse con quello degli altri direttori suoi concorrenti; senza dubbio temeva le confidenze e le spiegazioni. Era comunque una condizione prestabilita, assai raccomandata dal reverendo e strettamente osservata da tutti i suoi penitenti.
In quel mentre ci mettemmo a tavola. La colazione fu piuttosto vivace. Mi sentivo molto meglio del solito: il mio languore aveva lasciato spazio alla vivacità e, tranne che per il dolore alle reni, mi sentivo un’altra. Al contrario di quanto succede solitamente nei pranzi fra preti e devoti, non si parlò male di nessuna conoscenza comune. L’Abate T…, dotato di grande spirito e di ancor più grande esperienza, ci raccontò mille piccoli aneddoti che, senza spettegolare su nessuno, portarono l’allegria tra i convitati.
Dopo aver bevuto dello Champagne e aver sorbito il caffè, mia madre mi prese da parte rimproverandomi la poca attenzione che avevo posto da qualche tempo nel coltivare l’amicizia e la benevolenza di Madame C…
«È una donna squisita», mi disse, «e devo a lei quel po’ di considerazione in cui sono tenuta in questa città. La sua virtù, il suo spirito, la sua intelligenza la fanno stimare e rispettare da tutti quelli che la conoscono. Noi abbiamo bisogno del suo appoggio; desidero e ti ordino, figlia mia, che tu faccia di tutto per conservare quest’amicizia».
Risposi a mia madre che non doveva dubitare della mia totale obbedienza alla sua volontà. Ahimè! La povera donna non supponeva affatto quali insegnamenti dovevo ricevere da questa signora, che in effetti godeva della più alta reputazione.
Mia madre e io raggiungemmo di nuovo la compagnia. Un istante dopo mi avvicinai a Madame C… scusandomi per la poca sollecitudine avuta nei suoi riguardi, e la pregai di permettermi di riparare a questo torto. Cercai di spiegarle dettagliatamente i motivi che ne erano la causa, ma Madame C… mi interruppe senza permettermi di chiarire.
«So già», rispose con buona grazia, «tutto ciò che volete dirmi, ma non entriamo in discussione su soggetti che non sono di nostra competenza; ciascuno crede di avere le proprie ragioni, e può anche darsi che siano tutte valide. Quel che è certo, è che io vi vedrò sempre con grande piacere; e per convincervi di questo», aggiunse alzando la voce, «stasera vi invito a cenare con me. Siete d’accordo?», disse rivolgendosi a mia madre. «A condizione, però, che anche voi e Monsieur l’Abate sarete della partita: avete tutti e due i vostri affari, e ve li lasceremo sbrigare. Quanto a me vado a fare una passeggiata con Mademoiselle Thérèse; l’ora e il luogo dell’appuntamento li sapete».
Mia madre era incantata: non aveva mai condiviso in pieno gli insegnamenti di Padre Dirrag e voleva sperare che i consigli di Madame C… mi avrebbero fatto uscire da quello stato passivo di contemplazione nel quale sospettava io fossi. Può darsi che agissero di comune accordo, ma comunque stessero le cose, riuscirono ben presto al di là delle loro speranze.
Dunque, Madame C… e io uscimmo, ma non avevo fatto cento passi che quel dolore che già sentivo divenne così vivo che a malapena riuscivo a reggermi in piedi. Avevo degli spasimi terribili e Madame C… se ne accorse.
«Che cosa avete, cara Thérèse?», mi chiese. «Sembra che vi sentiate male». Ebbi un bel dire che non era nulla: le donne sono curiose per natura, e lei mi pose mille domande che mi gettarono in un imbarazzo da cui non sapevo come liberarmi.
«Siete per caso anche voi», disse, «tra le famose stigmatizzate? Vi vedo tutta confusa e le gambe vi sostengono a malapena. Venite nel mio giardino, bambina mia, dove starete un po’ più tranquilla. Da qui non è molto distante!».