Non avevamo dietro nemmeno una torcia che ci illuminasse la via, né il silenzio della notte ormai a metà del suo corso ci faceva sperare nel lume di qualche passante. A tutto questo si aggiungeva il fatto che eravamo ubriachi e non conoscevamo quella zona, dove sarebbe stato difficile districarsi anche in pieno giorno. Così, dopo aver girato per quasi un’ora in mezzo a sassi e a pezzi di anfora rotta con i piedi che ci sanguinavano, alla fine riuscimmo a venirne a capo solo grazie all’accortezza di Gitone. Quel furbone, infatti, la sera prima, temendo che da quelle parti ci si potesse perdere anche alla luce del sole, aveva marcato col gesso tutti i pilastri e le colonne, e adesso quei segni che, bianchi com’erano, li si poteva distinguere anche nel cuore della notte, ci indicavano la giusta via. Ma anche alla locanda ci toccò sudare, perché la vecchia aveva passato la giornata a riempirsi di vino insieme agli altri clienti, e adesso non si sarebbe svegliata nemmeno dando fuoco alla casa. E forse avremmo passato il resto della notte lì sulla porta, se non fosse passato un corriere di Trimalcione scortato da dieci carri, il quale, senza stare tanto a bussare, scaraventò giù la porta, permettendoci così di entrare attraverso quel varco.
*
Che notte stupenda fu quella, o numi del cielo,
Che letto di fiaba! Uniti nel fuoco dei baci,
Le anime ardenti scambiammo, passandole
di bocca in bocca. Addio, mortali affanni!
Quello sì che fu un dolce morire.
Ma ho ben poco da stare allegro. Appena infatti la sbornia e il sonno mi allentano la presa, Ascilto, sempre pronto a inventarne di nuove, mi porta via il ragazzino nel cuore della notte e se lo trascina nel letto, spupazzandosi alla grande quell’amante non suo: e Gitone, vuoi perché insensibile all’offesa, vuoi perché fingeva di non accorgersene, finisce coll’addormentarsi nella braccia di quell’estraneo, con somma indifferenza per ogni umano rispetto. Così, quando apro gli occhi e allungando la mano nel letto mi accorgo che il mio tesoro non c’è più, rimango lì nel dubbio (ammesso che si debba prestar fede agli innamorati) se valga la pena di trafiggerli con la spada, facendoli così passare dal sonno alla morte. Poi però, scegliendo la soluzione più saggia, sveglio Gitone a furia di botte e, fissando Ascilto con aria truce, gli urlo: «Visto che con questo bel numero hai violato la parola data e l’amicizia che ci legava, levati di torno più presto che puoi e vai a fare le tue schifezze da qualche altra parte».
Ascilto non batte ciglio e, dopo aver diviso d’amore e d’accordo la nostra roba, mi dice: «Bene, e adesso dividiamoci anche il ragazzino».
Io pensavo volesse congedarsi con una battuta di spirito. Ma lui sguaina la spada con mano fratricida e si mette a gridare: «Non te lo godrai questo tesoro, su cui vorresti buttarti da solo. Bisogna proprio che ci esca la mia parte, a costo di tagliarmela con questa spada, visto il disprezzo in cui mi tieni!». Dall’altra parte io faccio lo stesso, mi avvolgo il braccio col mantello e mi metto in guardia in attesa dello scontro. Nel pieno di questo accesso di follia a due, quel poveraccio di Gitone ci abbracciava in lacrime le ginocchia, implorandoci di non trasformare quella locanda in una seconda Tebe e di non macchiare col nostro sangue il sacro vincolo di un’amicizia tanto bella. «Ma se il morto ci deve scappare comunque» urlava, «eccovi la mia gola: rivolgete qui le vostre mani, infilateci dentro le spade fino all’elsa. Chi deve morire sono io, perché ho distrutto il sacro vincolo dell’amicizia». Di fronte a quelle suppliche rimettiamo a posto le spade, e il primo a parlare è Ascilto: «Io voglio mettere fine alla lite: il ragazzo vada pure con chi gli pare, perché sia libero di optare per chi vuole almeno nella scelta del “fratellino”». Pensando che l’amicizia di lunga data tra me e Gitone si fosse ormai trasformata in un legame di sangue, non ho nulla da temere, anzi aderisco subito alla proposta con uno slancio rabbioso, lasciando che a giudicare della lite sia il solo Gitone. Che non ci pensa su nemmeno un attimo, tanto per far vedere di essere un po’ indeciso, e mentre io sono ancora lì che devo finire l’ultima parola, lui si alza di scatto e si sceglie Ascilto come fratellino. Fulminato da quella decisione, così com’ero, senza nemmeno più la spada, cado sul letto, e mi sarei ammazzato con le mie mani, non fosse stato per il trionfo del nemico. E così Ascilto se ne va tutto ringalluzzito da quella preda, piantando lì su due piedi e in un posto sconosciuto l’uomo che fino a poco prima era stato il suo migliore amico nella buona e nella cattiva sorte.
La parola amicizia dura finché serve;
la pedina corre instabile sulla scacchiera.
Finché regge la fortuna, eccoti tutti amici;
ma quando crolla, è subito vergognosa fuga.
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I guitti sono in scena alle prese con un mimo:
chi fa il padre, chi fa il figlio, chi la parte del riccone.
Ma quando sulla pagina il comico finisce,
torna la faccia vera e quella falsa muore.
*
Ad ogni modo, non me ne sto lì a piangere ancora per molto, ma per paura che tra le altre disgrazie l’assistente Menelao mi trovi lì da solo nella locanda, raccolgo i miei stracci e avvilito come sono prendo in affitto un posticino fuori mano in riva al mare. Rimango lì barricato per tre giorni e, assillato dal pensiero della solitudine e da quello dell’affronto subito, mi percuotevo il petto, continuando a ripetermi, tra gemiti disperati: «Ma perché la terra non mi ha voluto inghiottire? Perché non mi ha risucchiato il mare che infierisce anche contro gli innocenti? Sono forse sfuggito alla giustizia, ho scampato la sabbia del circo, ho assassinato un ospite, per finire, dopo tante prove coraggiose, in una pensioncina di una città greca, senza il becco di un quattrino, cacciato dalla patria e abbandonato? E chi mi ha condannato a questo isolamento? Un ragazzino rotto a ogni libidine, degno per sua stessa ammissione dell’esilio, uno che a forza di concedersi è diventato libero e rispettabile, uno che ha alle spalle una vita di marchette, e che faceva la ragazzina anche con quelli che sapevano benissimo che era un maschio. E dell’altro, che cosa dovrei dire? Che il giorno della toga virile si è messo un vestito da donna, che già sua madre lo aveva persuaso di non essere un uomo, che quand’era ai lavori forzati faceva la troia di tutti, e che poi, soltanto per cambiare settore di schifezze, ha tradito il nome di un’antica amicizia. Vergogna! Come la peggiore delle puttane, si è venduto fino alle braghe per la fregola di un’unica notte. E nel frattempo, quei due se la spassano abbracciati, e magari, stremati dal piacere, se la ridono anche della mia solitudine. Ma non la passeranno liscia. E non sarò più un uomo e libero per giunta, se non laverò nel loro sangue l’affronto che hanno fatto al mio onore».