Feb 082020
 

«Ad ogni modo, come gli dèi han voluto, in quella casa divenni io il padrone, e il mio signore faceva tutto di testa mia. Che altro dovrei dirvi? Mi nominò erede unico insieme all’imperatore, lasciandomi un patrimonio da senatore. Ma nessuno ne ha mai abbastanza, e così mi buttai nel commercio. Per non farvela troppo lunga, feci costruire cinque navi, le caricai di vino – che in quel tempo era oro colato – e lo spedii a Roma. Però, nemmeno a farlo apposta, le navi andarono a picco dalla prima all’ultima. È la verità, mica una frottola. In un solo giorno il mare si pappò trecentomila sesterzi. Credete che mi sia scoraggiato? Manco a pensarlo: la cosa non mi fece né caldo né freddo, come se non fosse successo un bel niente. Invece feci costruire altre navi, più grosse, più robuste e più fortunate, così che tutti andassero a dire in giro che ero uno che non si scoraggia. Lo sapete benissimo, più una nave è grande, più diventa resistente. Imbarcai di nuovo vino, lardo, fave, cosmetici e schiavi. In quel frangente fu Fortunata a compiere un bel gesto davvero: vendette in massa gioielli e guardaroba e mi mise in mano cento monete d’oro. E per le mie finanze questo gruzzolo fu come lievito. Quando poi il cielo ti assiste, le cose filano ch’è un piacere. Con un viaggio soltanto mi misi in tasca dieci milioni di sesterzi. Riscattai subito la terra che era stata del mio padrone, mi tirai su una casa, acquistai schiavi e bestie da soma. Tutto quello che toccavo, cresceva come fosse stato un favo. Quando mi resi conto di esser più ricco di tutta la mia città messa insieme, la piantai col commercio e mi misi a prestare a interesse ai liberti. A essere sinceri, non lo facevo volentieri quel traffico, ma a spingermi a continuare fu un astrologo che dalle nostre parti ci era capitato per caso, un greco di nome Serapa, che quanto a consigli poteva darne anche agli dèi. Riuscì a elencarmi per filo e per segno anche quelle cose che ormai io mi ero bello che dimenticato. Sembrava in grado anche di leggermi negli intestini, e poco mancò che mi sapesse dire anche quello che avevo mangiato il giorno prima. Sembrava avesse passato con me una vita intera».

«Dammi una mano, Abinna, se non sbaglio c’eri anche tu, no, quando mi diceva: “Tu la padrona l’hai conquistata con quella tua tecnica. Tu con gli amici non sei granché fortunato. Nessuno ti è mai grato abbastanza di quello che fai. Tu possiedi terre a perdita d’occhio. Tu ti porti in seno una vipera”. E – perché poi non dovrei confessarvelo – che mi restano da vivere trent’anni, quattro mesi e due giorni, e che riceverò presto un’eredità. Il mio oroscopo è questo. Se poi riuscirò a toccare la Puglia coi miei terreni, allora sì che avrò speso bene la vita. Nel frattempo, con l’aiuto di Mercurio, mi sono costruito questa casa. E voi lo sapete benissimo che era una bicocca: adesso è diventata una reggia. Ha quattro sale da pranzo, venti camere da letto, due porticati in marmo, una serie di stanze al piano di sopra, la camera dove dormo io, un salottino per questa vipera qua, e un alloggetto niente male per il portinaio. Per gli ospiti, poi, lo spazio non manca. Quando Scauro è transitato di qua, non ha voluto alloggiare se non da me, e dire che il padre ha una gran villa sul mare. E ci sono anche tante altre cose che tra un attimo vi faccio vedere. Credete a me: noi valiamo per quello che abbiamo. Più possiedi, più sarai considerato. Prendete il vostro amico: da rana che era, adesso è diventato re. Ma ora Stico portami la roba con cui voglio essere seppellito. E portami anche i cosmetici e un dito di quel vino nell’anfora, che voglio lo usino per lavarmi le ossa».

Stico non si fa pregare, e in un attimo porta in sala una coperta bianca e una toga pretesta… che lui ci ordina di palpare, per vedere se erano di lana buona o meno. Poi, sorridendo, riprende: «Sta’ all’occhio, Stico, che non me le rodano i sorci o le tarme, se no ti brucio vivo. Voglio un funerale coi fiocchi, con tutta la gente dietro a parlar bene di me». Poi stappa una boccetta di nardo e ci unge dal primo all’ultimo dicendo: «Spero che da morto questo profumo mi piaccia come da vivo». Dopo aver fatto versare del vino nel contenitore, aggiunge: «Fate conto ch’io vi abbia già invitati al mio banchetto funebre».

La faccenda stava diventando nauseante, quando Trimalcione, ormai stordito dalla sbornia, ordina che entri nella sala una nuova banda – questa volta costituita da suonatori di corno – e, stravaccandosi su una montagna di cuscini, si sdraia in fondo al divano, dicendo: «Fingete che sia morto e suonatemi qualcosa di carino». Gli orchestrali attaccano un’assordante marcia funebre e specialmente uno di essi, il servo di quell’impresario di pompe funebri, che era il più rispettabile in quella combriccola, si butta sullo strumento con una foga tale da svegliare tutto il vicinato. E così, i pompieri che erano in servizio in quel quartiere, credendo che la casa di Trimalcione stesse andando a fuoco, sfondano subito la porta e si mettono a fare il loro solito caos a base di colpi di accetta e secchiate d’acqua. E noi, approfittando di quella meravigliosa occasione, salutiamo al volo Agamennone e filiamo via di corsa proprio come se stessimo scappando da un incendio.

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