Gen 182020
 

«Ma dimmi un po’, Gaio, te ne prego, com’è che Fortunata non è della partita?». «Come? Non lo sai» gli risponde Trimalcione «che quella, finché non ha rimesso a posto tutta l’argenteria e distribuito gli avanzi ai servi, non butta giù nemmeno una goccia d’acqua?». «Va bene» incalza Abinna, «ma se lei non si fa vedere, io alzo le chiappe e tolgo il disturbo». E aveva già fatto il gesto di alzarsi, quando, su ordine del padrone, tutta la servitù si mette a chiamare Fortunata quattro volte e più. Così lei arriva, con il vestito tenuto su da una cintura giallina che le si vedeva sotto la tunica color ciliegia, i cerchietti intrecciati alle caviglie e gli stivaletti dorati. Allora, asciugandosi le mani con un fazzoletto che aveva al collo, si va a sdraiare accanto a Scintilla, la moglie di Abinna, e mentre questa batte le mani, la sbaciucchia dicendo: «Te, beato chi ti vede!».

Tra un discorso e l’altro, si arriva al punto che Fortunata si sfila i braccialetti dalle braccia grassissime e li mostra a Scintilla tutta presa dalla cosa. Poi si toglie anche i cerchietti dalle caviglie e la reticella da capelli che a sua detta era di oro puro. Trimalcione segue la scena e poi, alla fine, si fa portare il tutto dicendo: «Ecco qua le catene delle donne! E noi, baccalà, ci facciamo ripulire fino all’osso. Questo qui mi sa che pesa almeno sei libbre e mezzo. Però un bracciale da dieci libbre ce l’ho anch’io, che me lo son fatto fare coi millesimi di Mercurio». Poi, per far vedere che non raccontava frottole, si fa portare una bilancia e pretende che i commensali se la passino per verificare il peso del bracciale. Ma Scintilla non è da meno, perché si toglie dal collo un astuccio in oro da lei chiamato Felicione e ne estrae due orecchini che porge a Fortunata, dicendole: «Questi sono un regalo del mio signor marito che di più belli non ce ne sono». «Sfido io!» sbotta Abinna. «Per farti comprare quegli affari di vetro, mi hai portato via anche la camicia! Stai pur certa che se avessi una figlia, le taglierei i lobi delle orecchie. Se non ci fossero le donne, ti tirebbero dietro la roba. E invece, guarda un po’, ci tocca pisciare caldo e bere freddo».

Intanto le due donne, toccate nel vivo, mezze brille com’erano già, se la ridono e si sbaciucchiano, mentre una elogia il suo impegno di madre di famiglia, e l’altra si lamenta delle scappatelle del marito e di quanto lui la trascuri. E mentre se ne stanno così appiccicate, Abinna, senza farsi vedere, si alza e tira Fortunata per i piedi, facendola finire lunga e distesa sul letto. «O porca…» urla quella con il vestito che svolazza fin sopra le ginocchia. Poi però si ricompone e si va a buttare tra le braccia di Scintilla, nascondendosi con il fazzoletto la faccia resa ancora più volgare dal rossore.

Poco dopo Trimalcione ordina di servire il dessert, e i servi sparecchiano i tavoli e preparano dei nuovi coperti, spargendo per terra della segatura colorata di zafferano e di carminio e, cosa questa che non avevo mai visto, della polvere di mica. Subito Trimalcione attacca: «Certo poteva bastare la prima portata. Invece c’è anche il dolce. E se di là avete qualcosa di buono, allora portatelo».

Intanto uno schiavetto di Alessandria impegnato a servirci l’acqua calda comincia a imitare l’usignolo, con Trimalcione che ogni tanto gli grida: «Cambia». E allora ecco arrivare un altro numero. Un servo che era sdraiato ai piedi di Abinna, a un cenno direi del padrone, comincia a declamare ad alta voce:

«Intanto Enea era già in mare aperto con la flotta».

Un suono più duro e sgradevole io non l’avevo mai sentito: infatti quel tizio, oltre agli alti e bassi casuali nei toni e agli errori di pronuncia tipici di chi è straniero, mescolava al testo dei versi di Atellana, tanto che per la prima volta in vita mia anche Virgilio mi fece venire il voltastomaco. Quando a un certo punto non ne poteva più, Abinna aggiunge: «E pensare che a scuola non ci ha mai messo piede: sono stato io che per fargli imparare qualcosa lo mandavo dai suonatori ambulanti. Ed è per questo che adesso è una forza quando si mette a fare il verso ai mulattieri e ai suonatori ambulanti. E poi è un talento nato: sa fare il sarto, il cuoco, il pasticciere, un drago in tutti i mestieri. Certo, due difetti ce l’ha, sennò sarebbe perfetto: è circonciso e russa. Che poi sia strabico, non me ne importa: ha gli occhi come Venere. Per questo non sta mai zitto, e i suoi occhi sono sempre mobilissimi. L’ho pagato trecento denari…».

Scintilla lo interrompe e sbotta: «Non li hai mica raccontati tutti i pregi di questo schiavo, eh? Perché ti fa anche da ruffiano, ma io uno di questi giorni lo faccio marchiare». Trimalcione rise e disse: «Lo riconosco, il Cappadoce: non si priva di nulla e com’è vero dio fa pure bene, perché son cose quelle che nella bara non ce le regala più nessuno. Ma tu, Scintilla, vedi di non fare troppo la gelosa. Credimi, voi donne vi conosciamo bene. Morissi qui sul posto, se non è vero che ai miei tempi mi sbattevo la padrona, tanto che anche il padrone ha fiutato qualcosa e mi ha spedito a sgobbare in campagna. Ma non fatemi parlare che è meglio». Ma quella lenza di uno schiavo, come se avessero detto mirabilia sul suo conto, tira fuori una piccola lampada di argilla e per una buona mezz’ora imita la tromba, con Abinna che lo accompagna facendo vibrare il labbro inferiore. Alla fine avanza nel mezzo della sala e imita il flautista con due pezzi di canna, per poi passare a fare il verso al mulattiere con un mantello e una frusta, finché Abinna lo richiama a sé e lo sbaciucchia porgendogli un bicchiere di vino: «Sei sempre più gagliardo, Massa, eccoti in dono un bel paio di sandali».

Dio solo sa quando sarebbe finito quello strazio, se non avessero servito il dolce, a base di tordi farciti di uva passa e noci. Poi arrivano delle mele cotogne piene di spine per farle sembrare tanti ricci. E questo ancora ancora era tollerabile, se non avessero portato un piatto ben più spaventoso che ci fa pensare che sarebbe stato meglio morire di fame. Quando viene servita in tavola, occhio e croce ci sembra un’oca obesa con contorno di pesci e di uccelli assortiti: «…», dice Trimalcione, «tutto quello che vedete in tavola è fatto di un unico ingrediente». E io, siccome un paio di cose le so, capisco subito di cosa si tratta e, rivolgendomi ad Agamennone, gli dico: «Ci va già bene se tutta ‘sta roba non è fatta di… o almeno di fango. A Roma ne ho viste, a Carnevale, di cene così che erano tutte finte».

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