Rabbrividii atterrito da tutte quelle incredibili promesse e cominciai a osservare con maggiore attenzione la vecchia.
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«Avanti» esclama Enotea, «eseguite i miei ordini!»…
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e dopo essersi lavata con cura le mani, si chinò sul letto e mi baciò due volte…
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Enotea piazzò una vecchia tavola in mezzo all’altare, ci sistemò sopra dei carboni ardenti, e quindi, dopo aver sciolto un po’ di pece, riparò una vecchia scodella tutta forata. Poi riattaccò alla parete affumicata il chiodo che era venuto giù mentre prendeva la ciotola di legno. Quindi, dopo essersi legata ai fianchi un grembiule quadrato e aver sistemato sul fuoco una grossa pentola, servendosi di un forchettone tirò giù dalla dispensa un sacchetto con dentro delle fave pronte per l’uso e una testina di maiale già tutta rosicchiata. Aperto il sacco, distribuì sulla tavola una parte delle fave e mi intimò di pulirle per bene. Io le obbedisco e, mettendoci dell’impegno, comincio col mettere da parte quelle che dalla buccia sembravano ammuffite. Ma lei, dandomi del buono a nulla, raccoglie quella robaccia e, strappandone le bucce con i denti, le sputa per terra, che sembravano tante mosche.
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Dal canto mio, ero sbalordito al vedere quanto la povertà aguzzi l’ingegno e come ogni singolo aspetto possa esser sfruttato col senso pratico:
L’avorio dell’India non splendeva montato nell’oro,
né di lastrici in marmo pregiato brillava la terra
privata dei suoi tesori, ma solo una stuoia di salice
e fasci di povera paglia, e tazze ancor fresche d’argilla,
che un ruvido tornio aveva forgiato alla buona.
Per l’acqua un catino, e ceste di vimini appese
a un ramo flessuoso, e un’anfora sporca di vino.
E al muro lì intorno di paglia e di fango commesso
infissi vedevi dei rustici chiodi, e appesa
a un giunco nel pieno del verde un’esile canna.
Inoltre da un trave fumoso dell’umile casa pendevan
le scorte, e dolci sorbe oscillavano in trecce odorose
intrecciate, e santoreggia lasciata invecchiare,
e grappoli d’uva passita. Al pari ospitale fu un giorno
la casa d’Ecale nell’Attica, degna di culti sacrali,
che il verso del vecchio Battiade a noi nel memore corso
degli anni trasmise a un’età che sapesse ammirarlo.
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Mentre lei è alle prese con un pezzettino di carne e col forchettone cerca di riappendere in dispensa quella testina che, occhio e croce, doveva avere la sua età, lo sgabello tarlato sul quale era salita per arrivare fin lassù si sfascia e manda a gambe levate la vecchia, facendola planare con tutto il suo peso sul focolare. Di conseguenza si spacca anche l’orlo della pentola e il fuoco, che stava già per prendere, si spegne. Lei centra col gomito un tizzone ardente e la cenere che si solleva le sporca tutta la faccia. Io salto su in piedi tutto spaventato e, non senza sghignazzare, aiuto la vecchia a tirarsi su… e, per evitare ritardi al sacrificio, va subito dai vicini a farsi dare il necessario per riattizzare il fuoco.
Io allora mi diressi verso l’ingresso della stamberga… quand’ecco che tre oche sacre, abituate intorno a mezzogiorno – mi immagino – a reclamare il becchime dalla vecchia, mi si avventano addosso e mi circondano da ogni parte, spaventandomi pure con un orrendo e rabbioso strepito. Una mi fa a pezzi la tunica, un’altra mi slega le stringhe dei calzari e se li porta via, mentre una terza, che guidava quell’assalto in piena regola, non esita a straziarmi un polpaccio col suo becco seghettato. Siccome di quel brutto scherzo non ne potevo davvero più, strappai una gamba alla tavola e cercai di liberarmi a mano armata da quella bestiaccia inferocita. E non mi limitai a qualche semplice colpo dimostrativo, ma mi vendicai stendendola morta al suolo:
Così costretti dall’astuzia di Eracle, credo, al cielo fuggirono
gli uccelli Stinfalidi, e rapide come corrente le Arpie quando a Fineo
lordarono i tavoli stillando veleno sulle false mense.
Tremò la volta celeste, squassata alle insolite grida,
e fu scossa la reggia del cielo.
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Nel frattempo le altre due oche si erano spazzolate le fave che, rotolando sul pavimento, si erano sparse dovunque e, sconfortate dalla perdita di quella che a mio avviso doveva essere il capo, se ne erano tornate nel tempio, quando io, raggiante per essermi rifatto portando via anche del bottino, nascondo dietro il letto l’oca uccisa e mi disinfetto con un po’ di aceto la ferita non troppo profonda alla gamba. Per paura poi di doverla pagare cara, pensai bene di togliere il disturbo e, raccolta la mia roba, feci per uscire dalla stamberga. Ma non ne avevo ancora varcato la soglia, che vidi Enotea tornare sui suoi passi con un recipiente pieno di braci. Tirai subito indietro il piede e, dopo essermi tolto di nuovo il mantello, rimasi lì sulla porta, come se stessi aspettando il suo arrivo. Lei allora sistemò un po’ di brace sotto le canne, ci mise sopra molta legna e cominciò a scusarsi del ritardo, dovuto a una vicina che non l’aveva lasciata andare via se non dopo aver buttato giù i soliti tre bicchierini. «E tu» disse poi «che hai fatto mentre non c’ero? E le fave dove sono finite?». Convinto com’ero di aver compiuto chissà quale prodezza, le raccontai per filo e per segno tutta la storia della battaglia e, perché non stesse a pensarci troppo, le offrii l’oca come risarcimento al danno subito. Ma non appena la vecchia la vide, si mise a strillare così tanto e così forte, da dar l’impressione che le oche fossero di nuovo lì sulla porta. Impressionato, allora, e sbalordito da come si stava mettendo la faccenda, le chiesi perché mai si fosse scaldata tanto e perché si preoccupasse più dell’oca che di me.