Il giorno dopo, essendomi alzato senza più alcun disturbo di natura fisica e psicologica, mi recai di nuovo in quello stesso viale coi platani, anche se ormai avevo il sospetto che si trattasse di un posto un po’ iellato, e rimasi lì tra gli alberi ad aspettare Criside che mi indicasse la strada. Stanco di andare su e giù, mi ero seduto nel punto del giorno prima ed eccola arrivare in compagnia di una vecchietta. E dopo avermi salutato, mi disse: «E allora, pagliaccio, oggi andiamo un po’ meglio?».
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La vecchia, intanto, tirò fuori dal grembo un cordoncino intrecciato con fili di diverso colore e me lo legò al collo. Poi raccolse col dito medio un po’ di terriccio, ci sputò sopra e mi tracciò dei segni sulla fronte, anche se io cercavo di oppormi schifato…
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Dopo aver pronunciato questa formula magica, la vecchietta mi ordinò di sputare tre volte e di tirarmi per tre volte contro il petto dei sassolini incantati che aveva portato avvolti in uno straccetto di porpora. Poi, allungando le mani, cominciò a manipolarmi l’affare, che obbedì all’istante, gonfiandosi e indurendosi in maniera così spettacolare da riempire le mani della vecchia, che esultante esclamò: «Guarda un pochino, Criside mia, che bel leprotto ti ho stanato perché un’altra se lo goda!».
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Il platano mobile l’ombra estiva diffonde,
e il tremulo cipresso, e Dafne coperta di bacche,
e pini potati dalle cime ondeggianti.
Lì in mezzo giocavano le acque errabonde di un rivo
spumoso, smeriglio dei ciottoli le querule onde.
Un luogo degno d’amore: ne davano conferma l’aedo silvestre
e Procne l’urbana, che a volo sui prati d’intorno
e su tenere viole un inno levavano ai campi.
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Mollemente adagiata sul letto, lei poggiava il suo collo marmoreo su un cuscino dorato, e con un mirto in fiore si faceva vento lentamente. Appena mi vide, arrossì un pochino, memore forse del brutto scherzo che le avevo fatto il giorno prima. Quando però tutti i presenti si ritirarono e mi invitò a sdraiarmi accanto a lei, mi coprì gli occhi con il rametto e, quasi resa più sbarazzina da quella specie di schermo tra di noi, disse: «E allora, mio bel paralitico, oggi sei venuto tutto intero?». «Perché fai tante domande» replicai io «invece di toccare con mano?». E abbandonatomi tutto nel suo abbraccio, ormai senza bisogno di incantesimi, andai avanti a baciarla fino a non poterne più.
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ENCOLPIO A PROPOSITO DEL FANCIULLO ENDIMIONE. Con la sola bellezza del suo corpo che per me era tutto un invito, lei mi attirava al piacere. Già sulle nostre labbra fioccavano fitti i baci, già le mani intrecciate si erano avventurate in ogni tipo di carezze amorose, già i nostri corpi allacciati si erano fatti un respiro solo.
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Esasperata da un fiasco tanto palese, la signora si decise alla fin fine a punirmi: e così, chiamati i domestici, dà ordine di appendermi per i piedi e frustarmi. Ma non contenta di avermi già umiliato in quel modo, chiama le sue schiave addette al telaio e la feccia della servitù, invitando tutti a coprirmi di sputi. Io mi metto una mano sugli occhi e, senza lasciarmi scappare una sola parola di supplica perché sapevo di meritarmelo in pieno, vengo scaraventato fuori in una gragnuola di calci e di sputi. Insieme a me cacciano anche la vecchia Proseleno, e Criside si busca la sua bella razione di botte, mentre tutti i servi bisbigliano preoccupati tra loro, chiedendo chi mai abbia fatto uscire dai gangheri la padrona, che un attimo prima così di buon umore.
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Così, rinfrancato al pensiero che anche gli altri le avevano prese, nascosi abilmente i segni delle frustate, per evitare che Eumolpo se la ridesse dei miei guai e che Gitone se ne rattristasse. Facendo perciò l’unica cosa possibile per salvare la faccia, finsi di non sentirmi bene e, cacciatomi a letto, scatenai tutta la mia rabbia contro l’arnese, unico e vero responsabile di quella serie di disavventure.
Strinsi in mano tre volte la scure terribile,
tre volte temetti il ferro che male la mano reggeva,
rammollito com’ero più di un torso di cavolo.
Né più avrei potuto infligger la pena che pure volevo.
Infatti l’arnese, spaurito e più freddo del ghiaccio,
si era ritirato nella pancia coperto da innumeri grinze.
Né potei la cappella scoprirgli per dar mano al supplizio,
ma beffato dal terrore mortale di tale pendaglio da forca,
mi tuffai negli insulti che più lo potevano ferire.
Appoggiandomi dunque sul gomito, indirizzai a quel contumace un’invettiva grosso modo così: «Cos’hai da dire, vergogna di tutti gli uomini e di tutti gli dèi? Infatti in un discorso serio non è corretto nemmeno nominarti. Cosa ti avrei mai fatto perché tu mi trascinassi all’inferno dal paradiso in cui mi trovavo? Perché tu mi togliessi il fiore degli anni nel suo primo rigoglio, per mettermi addosso lo sfinimento dell’estrema vecchiaia? Avanti, dammi anche solo una prova che almeno ci sei». Mentre così mi sfogavo,
Volgendo il capo, a terra gli occhi teneva,
e la faccia non tradiva ombra di movimento alle mie parole,
più di un salice molle o di un papavero dal gambo appassito.
Eppure, appena finita quella penosa tirata, cominciai a provare rimorso per quanto avevo appena detto e ad arrossire tutto dentro di me, perché, lasciando da parte ogni traccia di pudore, mi ero messo a parlare con quella parte del corpo che la gente a modo non ammette nemmeno di avere. Ma poi, dopo una lunga grattata di testa, mi dissi: «Ma, in fin dei conti, che male c’è se ho sfogato la mia rabbia con un po’ di parolacce? Non è forse la stessa cosa quando, sempre accanendoci col nostro corpo, imprechiamo contro la pancia o la gola o la testa, quando ci fanno male troppo spesso? Ulisse non litiga forse col proprio cuore, e certi personaggi della tragedia non se la prendono con gli occhi, come se quelli potessero starli a sentire? I gottosi poi maledicono i piedi, gli artritici le mani, i cisposi gli occhi, mentre quelli che prendono una botta al dito, scaricano la rabbia contro i piedi, come se fosse tutta colpa loro:
Perché mai mi squadrate con la fronte accigliata, o Catoni,
e condannate un’opera fresca come i tempi che corrono?
Sorride serena la grazia di uno stile spontaneo,
e quello che il popolo fa, chiara la lingua lo dice.
Chi è all’oscuro del sesso, e chi ignora le gioie di Venere?
Chi mai nega che i corpi si incendino nel caldo del letto?
Anche il padre del Vero, il saggio Epicuro, lo ingiunse,
e disse che questo è lo scopo finale della vita.
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«Negli uomini non c’è nulla di più falso dei pregiudizi, e nulla di più stupido di un’austerità ipocrita».
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