Disse così, e volendo alla destra unire la destra,
col gesto squarciò la terra aprendovi un baratro enorme.
Allora la sorte dal cuore volubile parlò queste parole:
“O padre, cui ottemperano gli antri segreti del Cocito,
se impunemente m’è dato svelare i destini veraci,
i tuoi voti saranno esauditi. Nel petto mi si agita
un’ira non minore, né fiamma più lieve le viscere m’arde.
Tutto ciò che io ho dato alla rocca di Roma lo odio,
e la rabbia mi rode a quei doni. Ma il dio che creò tale mole,
la schianterà lui stesso. Perché anch’io sento in cuore la brama
di cremare le salme e saziarmi di un’orgia di sangue.
Già io vedo Filippi ricoperta due volte di morte,
e le pire in Tessaglia e i lutti del popolo ispano.
Già il fragore delle armi mi introna le orecchie ferventi.
E già vedo, o Nilo, risuonare la tua fortezza di Libia,
e la punta di Azio e i guerrieri atterriti dalle frecce di Apollo.
Orsù, dunque, spalanca del tuo regno i confini assetati
e anime nuove richiama. A stento il nocchiero del fiume
traghettare potrà sulla barca tutte le ombre dei morti:
di una flotta avrebbe bisogno. Ma tu saziati in tanta rovina,
o Tisifone pallida, e lecca le aperte ferite:
il mondo straziato tra i morti è sospinto allo Stige”.
Aveva appena finito di parlare, che una nube squassata
da un lampo corrusco tremò vomitando lingue di fuoco.
Il padre delle ombre si china, rinserra il grembo del suolo,
e pallido in volto paventa le saette fraterne.
I presagi divini tosto annunciano stragi di umani
e flagelli imminenti. Sfigurato nel volto da macchie di sangue,
il Titano si copre la faccia di nebbia: già da allora
fiutare potevi l’orrore delle guerre civili.
Dal suo canto velandosi il candido volto,
Cinzia nega luce allo scempio. Stroncate le cime dei monti
franano tra strepiti, e i fiumi in un cieco vagare
vanno verso la morte scorrendo tra rive non note.
Il cielo infuria per strepito d’armi e un tremulo squillo fra gli astri
chiama Marte a battaglia, e già l’Etna divorano
fiamme mai viste e al cielo arrivano i lampi.
Tra le tombe e le ossa dei morti insepolti,
ecco falbe parvenze levano minacce con strida sinistre.
Sparge fiamme una cometa seguita da stelle inaudite,
e Giove subito riversa sul mondo una pioggia di sangue.
Un dio scioglie rapido i presagi, perché Cesare ha rotto
gli indugi, e sospinto dall’ansia di vendetta,
le armi galliche butta e brandisce spade civili.
Sulle altissime Alpi sconfitte dal Greco divino,
dove i sassi si abbassano e cedono il passo a chi sale,
lì c’è un luogo che a Eracle è sacro: dura neve lo copre
d’inverno e su fino al cielo lo innalza con bianca vetta.
Lì diresti che il cielo è crollato: quel luogo non si stempera ai raggi
del sole cocente, né alla brezza della nuova stagione,
ma tutto congelano il ghiaccio e la brina invernale.
Tutto il mondo potrebbe sorreggere col suo dorso minaccioso.
Come Cesare il passo calcò coi soldati festanti,
e scelse un punto di sosta, dalla cima più alta del monte
abbracciò con lo sguardo le vaste terre d’Esperia,
e levando le mani alle stelle e insieme la voce, così disse:
“Onnipotente Giove, o terra saturnia un tempo
felice delle mie gesta e greve di tanti trionfi,
è a voi che m’appello: mio malgrado qui Marte risveglio a battaglia,
mio malgrado riporto la guerra. Grave offesa mi spinge,
cacciato dalla mia terra, mentre il Reno coloro di sangue,
mentre ancora respingo i Galli che di nuovo si spingono
dalle Alpi a assediare la rocca, io ne vengo bandito
sebbene in trionfo. Dopo il sangue germano e sessanta vittorie,
mi si dice sei reo. A chi fa paura la mia gloria?
Chi sono quelli che vogliono la guerra? Solo masse assoldate
da vile mercede, per le quali la mia Roma è matrigna.
Ma non senza vendetta, credo, né senza castigo, un codardo
legherà questa mia destra. Correte furenti alla vittoria,
correte, compagni, e la causa col ferro trattate.
Una per tutti è l’accusa e tutti sovrasta un’unica strage.
Voglio rendervi grazie, non ho vinto da solo.
Ma se sono colpa i trofei e infamia le nostre vittorie,
il dado sia tratto e giudice sia la Fortuna. Guerra portate,
date prova di voi nello scontro. Certo la causa per me è risolta:
tra tanti guerrieri armato, non so cosa sia la sconfitta!”.
Dopo aver tuonato così, dal cielo l’uccello d’Apollo
diede fausti presagi muovendosi in volo per aria.
A sinistra si udirono poi da una selva paurosa
voci strane seguite da bagliori di fiamma.
Anche il disco di Febo si fece più vivo e più grande
di sempre, e il volto si cinse di un raggio di oro splendente.
Rincuorato da tali presagi, le insegne di guerra
Cesare innalza e solo al comando affronta imprese mai viste.
Per prima la terra coperta di ghiaccio e di candide brine
non gli si oppone, restando immobile nel suo orrore.
Ma quando le schiere spezzarono la nebbia compatta
e il cavallo impaurito ruppe le croste gelate dell’acqua,
le nevi si sciolsero. Un attimo e fiumi creati dal nulla
sgorgarono dai monti, ma come a un ordine dato
si bloccavano anch’essi, con il flutto stupito di fronte
all’arresto, e ciò che prima era liquido, adesso era lastra da taglio.
Illuse allora i passi la crosta sempre malfida,
e i piedi sorprese: e insieme le schiere e i guerrieri
con le armi giacevano perduti in un mucchio confuso.
Ecco pure le nubi colpite da gelidi soffi
rovesciare il carico, e i venti irrompere a turbine,
e la grandine turgida scrosciava dal cielo sventrato.
Ormai le nubi stesse crollavano sfatte sulle schiere,
cozzando col ghiaccio come onde sul mare.
Vinta era la terra dal gelo, vinte anche le stelle,
e vinte le correnti che immobili tacevano a riva.
Ma non Cesare ancora, che appoggiato all’asta possente
col suo passo sicuro violava quegli orridi campi,
quale l’Anfitrioniade scese altero dal Caucaso,
o Giove cupo in volto calò dalle vette d’Olimpo,
quando respinse i dardi dei Giganti al tramonto.
Mentre Cesare irato sconfigge quelle rocche superbe,
con un battito d’ali fremente la Fama veloce s’invola,
e del Palatino il punto più alto raggiunge,
ogni statua rimbomba di quel rombo romano:
navi corrono il mare e a ogni giogo delle Alpi
si addensano squadre coperte di sangue germano.
Armi, sangue, massacri, incendi e rovine di guerra
dinanzi agli occhi sfilano. Allora i cuori sconvolti
in tumulto dal panico sono scissi in due schiere.
Scappa questo per terra, confida quello nel mare,
della patria adesso più sicuro. Qualcuno vuole invece
la strada delle armi tentare e il fato seguire imperioso.
Quanto grande il terrore, tanto rapida è la fuga. Ma ancora più in fretta,
– vista questa miseranda – nel pieno del caos lascia
il popolo la sua città deserta e va dove il cuore lo spinge.
Roma vuole fuggire, e i Quiriti sbaragliati a un semplice suono
di voce le case si lasciano dietro nel lutto.
Chi con mano tremante i figli sostiene, chi in seno
i Penati nasconde e piangendo varca per l’ultima volta la soglia,
e il nemico assente consacra nel voto alla morte.
Alcuni si stringono al petto angosciati le spose,
e i genitori anziani, mentre i giovani inadatti agli sforzi
salvano solo quel che han di più caro. Chi incauto trascina
con sé tutto quanto possiede, il bottino trasporta ai nemici.
È come quando l’Austro si leva imperioso dal largo,
e gonfia di colpi le onde, che allora alla ciurma
non serve più remo o timone, ma all’albero lega uno il suo peso,
mentre un altro cerca spiagge sicure in fondo a un golfo,
e un altro ancora spiega le vele e in tutto alla sorte si affida.
Ma questo è ancora poco. Insieme ai due consoli il Grande,
lui terrore del Ponto, lui che è giunto all’Idaspe selvaggio,
lui flagello dei pirati, che portato tre volte in trionfo,
Giove stesso aveva temuto, cui il Ponto dal vortice infranto
e il Bosforo dall’onda mansueta si erano inchinati,
lui – vergogna! – fuggiva gettando il suo nome di capo,
così che la Sorte bizzarra vedesse la schiena anche del Grande.