Approviamo il nobile gesto e ci perdiamo nelle più svariate ciance sull’incertezza delle vicende umane. «Bisogna evitare che questo episodio» interrompe Trimalcione «si esaurisca senza che resti qualcosa di scritto». Si fa subito portare il necessario per scrivere e, senza spremersi granché le meningi, ci recita questi versi:
«Quanto meno ti aspetti, accade all’improvviso.
Domina tutto la Fortuna al di sopra di noi.
Perciò ragazzo versaci del vino di Falerno».
Dopo questo epigramma, il discorso scivola sui poeti… e il primato in quell’arte è rimasto a lungo di Mopso di Tracia… finché Trimalcione dice: «Senti un po’, maestro: che differenza passa tra Cicerone e Publilio?». Personalmente credo che il primo sia stato più eloquente, mentre il secondo più morale. Com’è possibile dirlo meglio che con questi versi?
“Sbriciola la lussuria le mura di Marte.
Per il tuo palato viene nutrito al chiuso il pavone,
avvolto nel suo drappo dorato di piume babiloniche,
e la gallina numidica e il grasso cappone.
E così la cicogna, amato ospite in viaggio,
cultrice di pietà, gracile, garrula,
uccello che fugge l’inverno, messo del tiepido tempo,
ora per te fa il suo nido nella pentola del peccato.
Perché ti è cara la perla, piccolo frutto dell’India?
Vuoi forse che la matrona piena di gemme del mare
apra le cosce ingorda su un letto d’altri?
Che fartene del verde smeraldo, preziosissima pietra?
Perché desiderare i rossi sassi di Cartagine?
Risplende l’onestà forse solo tra i rubini?
È giusto che una sposa si vesta di vento,
e poi si mostri nuda in un velo di lino?”.
Ma, secondo voi, qual è il mestiere più difficile» prosegue Trimalcione «dopo quello del letterato? A parer mio quello del medico o del banchiere: il medico perché deve sapere ciò che i poveri omicciattoli hanno dentro le viscere e quand’è che viene la febbre, anche se personalmente li detesto con tutto il cuore perché mi mettono sempre a brodino d’anatra; il bancario perché deve saper distinguere il rame al di sotto dell’argento. Tra gli animali che sono privi della parola, i più laboriosi sono il bue e la pecora: i buoi perché se abbiamo il pane da mettere sotto i denti lo dobbiamo a loro; le pecore perché con la lana ci rendono sciccosi. Ma la cosa più infame è che certa gente le pecorelle se le mangia e ci si fa pure i vestiti. Le api, poi, secondo me sono animali del cielo, perché vomitano miele, anche se si dice che glielo fornisce Giove. E proprio per questo pungono, perché dove là dove trovi il dolce, sta pur certo che c’è anche l’amaro».
Stava già per rubare il mestiere ai filosofi, quand’ecco che cominciano a far girare una coppa piena di biglietti della lotteria e uno schiavetto addetto a questo compito estrae i numeri leggendo ad alta voce le scritte sui premi. «Argento letale»: portano un prosciutto con sopra dei bussolotti d’argento. «Cuscino»: ed ecco arrivare un pezzo di capicollo. «Scemenze e insulti»: e sono offerte delle gallette scipite insieme a una mela con dentro uno stecco. «Porri e persiche»: e vengono consegnati una frusta e un coltello. «Passeri e moscato»: e arrivano uva passa e miele dell’Attica. «Per la tavola e per il tribunale»: e ci becchiamo un pasticcino e un quaderno. «Canale e pedale»: ed eccoti una lepre e una suola di scarpa. «Murena e lettera»: e ci presentano un sorcio legato a una rana e con un fascio di bietole. Ce la ridiamo di gusto. Di messaggi così ne passano una marea, ma ormai chi li ricorda più?
E intanto Ascilto, con la sua solita faccia tosta, siccome sbracciandosi a più non posso sbeffeggiava tutto e tutti e aveva le lacrime agli occhi a forza di ridere, uno dei liberti amico di Trimalcione – proprio quello che stava seduto accanto a me – salta su tutte le furie e gli grida: «Che c’è da ridere, deficiente? Forse che non ti vanno a genio le finezze del mio padrone? Magari sei più ricco tu e sai trattare meglio la gente che inviti a cena. Che il nume tutelare di questa casa mi assista, perché se sedevo vicino a quel ragazzotto, stai pur certo che a quello lì gli avrei già fatto chiudere il becco. Una testa di rapa che sbeffeggia gli altri! Un vagabondo, un brutto ceffo che non vale il suo piscio. Insomma, se gli orino addosso non sa nemmeno dove darsela a gambe. Maledetta miseria, non sono mica uno che si incazza facile, ma la gente molle se la mangiano i vermi! E ride, lui! Ma che avrà mai da ridere? Non sarai mica un figlio di papà, che ti ha pagato a peso d’oro? O sei cavaliere romano? E io sono figlio di un re. “Ma allora” potresti obiettare tu “com’è che prima facevi lo schiavo?”. Ma l’ho scelto io: meglio essere cittadino romano che un tributario di provincia. E adesso mi auguro di vivere così e di non venir schernito da chicchessia. Sono un uomo tra gli uomini e cammino a fronte alta. Non devo un centesimo a nessuno e mai ho avuto a che fare con la legge e mai nessuno nel foro mi ha detto: “Ridammi quel che mi devi”. Mi son comprato un pezzo di terra e ho messo da parte qualche straccio di risparmi: dò da mangiare a venti persone più un cane, ho riscattato la mia compagna che così nessuno può più usare il suo petto come asciugamano, e ho speso mille denari per la mia libertà. Mi hanno eletto seviro senza scucire una lira, e così spero di non dover arrossire nemmeno dopo morto. Tu invece sei così pieno di cose da fare che non riesci nemmeno a voltarti? La pagliuzza negli occhi degli altri la vedi sì, ma la trave che c’hai nei tuoi no di certo. È solo a te che noi sembriamo ridicoli. Guarda il tuo maestro: ha un sacco di anni in più, ma a lui gli andiamo a genio. Tu che puzzi ancora di biberon, sei fermo al bi e al ba, razza di cesso sfondato, anzi no, pezzo di cuoio nell’acqua: solo più molle, mica meglio. Certo, tu sei più ricco, e magari ti abbuffi due volte a pranzo e due volte a cena. Ma io alla mia dignità ci tengo più che a tutto l’oro del mondo. Insomma, qualcuno mi ha forse chiesto due volte una cosa? Sono stato schiavo per quarant’anni e mai nessuno ha saputo se ero schiavo o libero. Sono arrivato in questo paese che ero un ragazzino con una gran testa di capelli e che la basilica non c’era ancora. Però mi son messo sotto per far contento il padrone, che era un pezzo grosso e un tipo rispettato, e una sua unghia valeva più di tutto quanto sei tu messo insieme. E pensare che in casa gente pronta a farmi le scarpe ce n’era che metà bastava. Ma io, pace all’anima sua, sono rimasto a galla. Queste sì che sono prove. Perché a nascere liberi tutto diventa facile, come dire: “Prego, s’accomodi”. E adesso perché mi fissi imbambolato come un caprone in mezzo alle lenticchie?».