Impossibile notare tutta quella sfilza di particolari. Così entriamo nel bagno e, una volta madidi di sudore, in un lampo ci ficchiamo sotto la doccia fredda. Intanto Trimalcione, pieno di creme, si stava asciugando non con le solite salviette, ma con asciugamani di lana finissima. Nel contempo tre massaggiatori gli trincano bottiglie di Falerno davanti agli occhi, ma siccome litigando tra loro ne versano un bel po’ per terra, Trimalcione dice che è tutto alla sua salute. Poi, bardato in una veste scarlatta, viene issato su una portantina preceduta da quattro lacchè in livrea e da una specie di carrozzina a mano nella quale c’era il suo tesoro, un bambino con la faccia da vecchietto, tutto cisposo e più brutto ancora del suo padrone. Mentre lo trasportano in questo modo, gli si avvicina un musicista con un flauto minuscolo in mano, che per tutto il tragitto gli fa da colonna sonora, come se gli sussurrasse qualcosa alle orecchie.
Dietro veniamo noi, già un po’ seccati da tutte quelle sorprese, e, sempre insieme ad Agamennone, arriviamo alla porta di casa, sul cui stipite era inchiodato un cartello con su scritte queste parole: «Qualsiasi servo esca di casa senza il permesso del padrone, riceverà cento frustate». Sempre lì sull’ingresso c’era un portiere in uniforme verdognola con in vita tanto di cintura color ciliegia e intento a sbucciare piselli su un vassoio d’argento. Sulla soglia penzolava una gabbia d’oro con dentro una gazza screziata che dava il benvenuto alla gente in arrivo.
E mentre io me ne sto lì impalato a guardare tutte quelle cose, faccio un salto indietro che per poco non mi spacco una gamba. Infatti, a sinistra per chi entrava, a pochi passi dalla guardiola del portinaio, vedo dipinto sul muro un cane gigantesco tenuto però alla catena e con sopra scritto a lettere cubitali: «Attenti al cane». I miei soci scoppiano a ridere. Ma io, dopo essermi ripreso dallo spavento, mi rimetto a studiare la parete esaminandola per intero. C’era dipinto un mercato di schiavi con tanto di cartellino al collo e Trimalcione in persona che, con capelli fluenti e in mano il caduceo, faceva ingresso a Roma scortato da Minerva. Di seguito il pittore compiacente lo aveva accuratamente effigiato con tanto di cartigli nell’atto di imparare a far di conto e poi nel giorno in cui era stato nominato tesoriere. In fondo al portico, Mercurio lo issava verso un altissimo trono prendendolo per il mento. Al suo fianco c’era la Fortuna con il corno dell’abbondanza e le tre Parche impegnate a filare con conocchie d’oro. Nel portico vedo anche una squadra di atleti intenti ad allenarsi nella corsa sotto la guida di un preparatore. In un angolo noto poi un grosso armadio, dentro cui, in una nicchia, c’erano dei Lari d’argento, una statua di Venere in marmo e un calice d’oro di proporzioni ragguardevoli, nel quale si vociferava fossero conservati i peli della prima barba di Trimalcione.
A quel punto attacco a chiedere al maggiordomo che cosa rappresentino le pitture visibili al centro. «L’Iliade e l’Odissea» risponde lui, «e l’incontro tra i gladiatori di Lenate».
Ma non era davvero possibile star lì a osservare tutta quella roba
Eravamo ormai in prossimità della sala da pranzo, dove un sovrintendente stava facendo dei conti. Ma a colpirmi fu soprattutto un particolare: sugli stipiti della sala erano inchiodati dei fasci con tanto di scuri, che sulla punta terminavano in una specie di rostro di nave in bronzo, su cui era incisa la frase: «A G. Pompeo Trimalcione, seviro Augustale, il tesoriere Cinnamo». Al di sotto di quella scritta c’era una lampada a due becchi appesa al soffitto e, ai lati, fissate ai battenti, due tavole, in una delle quali, se non ricordo male, si leggeva: «Il 30 e il 31 di dicembre il nostro Gaio cena fuori». Sull’altra erano invece dipinti il corso della luna nel cielo e le immagini di sette pianeti, mentre una borchia distingueva i giorni fortunati da quelli disgraziati.
Imbottiti come siamo da queste meraviglie, non appena cerchiamo di entrare nella sala da pranzo, ecco che uno schiavetto, che era lì proprio per questo, esclama: «Col piede destro!». Sinceramente siamo un po’ preoccupati all’idea che qualcuno di noi varchi la soglia senza rispettare quell’indicazione. Poi, mentre alziamo tutti insieme all’unisono il piede destro, uno schiavo completamente nudo si viene a buttare ai nostri piedi e attacca a supplicarci di fargli togliere il castigo che gli era stato inflitto per una colpa in effetti non troppo grave (alle terme gli avevano rubato i vestiti del tesoriere che valevano a malapena sei sesterzi) e per la quale adesso rischiava grosso. Allora noi tiriamo indietro il piede destro, e supplichiamo il tesoriere impegnato a contare monete d’oro nell’atrio di perdonare quello schiavo. Ma il tipo ci guarda con faccia piena di boria e fa: «Non è tanto il danno subito a darmi fastidio, quanto piuttosto la negligenza di questo buono a nulla di un servo. Ha perso un completino da sera che mi era stato regalato da un cliente per il mio compleanno. E anche se l’avevo già fatto lavare una volta, era pur sempre della roba di Tiro. Ma insomma, che cosa volete? Ma sì, prendetevelo pure».