«O razza di deficiente, cosa ci potevo fare se morivo di fame? Forse stare a sentire quei deliri a base di paccottiglia e interpretazioni di sogni? Per Dio, sei ben più schifoso tu che per farci scappare una cena ti sei messo a tessere le lodi del poeta!». Ma alla fine, dopo tutta quella baraonda vergognosa, la buttiamo sul ridere per occuparci più tranquillamente del resto.
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Poi però, ripensando al torto subito, gli faccio: «Ascilto, guarda che tra noi due non può mica funzionare. Dividiamoci quei due stracci che abbiamo e vediamo di sbarcare il lunario ciascuno per conto suo. Un briciolo di cultura ce l’abbiamo tutti e due. Per non intralciarti nei tuoi giri, ti prometto di mettermi a fare dell’altro: se no finisce che ogni giorno saltano fuori mille motivi per litigare e a forza di risse a parole diventiamo lo zimbello di tutta la città». Ascilto, che non aveva nessuna obiezione, mi risponde: «Visto che oggi, in qualità di studenti, ci siamo guadagnati una cena, cerchiamo di non rovinarci la serata. Vuol dire che domani (è questo che vuoi, no?) mi andrò a cercare un’altra locanda e un altro compagno». «Certo che è una seccatura» ribatto io, «dover rimandare quanto si è deciso».
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A spingermi a una separazione così frettolosa era la foia: da un pezzo infatti volevo togliermi di torno quel rompi di un guardiano per riallacciare con Gitone il rapporto di un tempo.
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Dopo aver setacciato ogni angolo della città, me ne torno nella mia stanzetta e lì, ottenuti finalmente dei baci come si deve, mi avvinghio al ragazzino con abbracci da favola, centrando il mio obiettivo da fare invidia. Ma non avevo ancora fatto tutto per bene, che Ascilto, avvicinatosi alla porta in punta di piedi, rompe i chiavistelli con una spallata e mi becca che me la spasso col fratellino. Riempiendo la stanza di risate e applausi, tira via il mantello che avevo addosso e grida: «Che stavi combinando, razza di santerellino? In due sotto la stessa coperta, eh?». E mica si ferma alle sole parole. No, tira fuori la cinghia dalla valigia e attacca a menarmi di santa ragione, in più ripetendo con tono sfacciato: «Così impari a non dividere con un fratello».
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Al tramonto arriviamo al mercato, e lì vediamo esposta una quantità di merce che non era proprio di gran valore, ma la cui provenienza alquanto sospetta passava facilmente inosservata nel lusco e brusco dell’ora. Dato che anche noi ci eravamo portati dietro il mantello rubato, decidemmo di prendere al volo l’occasione e, piazzatici in un angolo, attaccammo a sbandierarne l’orlo, nella speranza che la bellezza del tessuto attirasse per caso qualche acquirente. Un attimo dopo un contadino, che a me sembrava però di avere già visto, ci si avvicina con una donnetta al fianco e si mette a esaminare il mantello con grande attenzione. Ascilto a sua volta attacca a fissare le spalle del villico, e tace di colpo, sbigottito. Allora scruto anch’io il tizio, non senza una certa apprensione, perché mi dà l’impressione di essere quello che aveva trovato la tunica nella grotta. E infatti era proprio lui. Ascilto, non fidandosi degli occhi e non volendo del resto agire in maniera avventata, prima gli si avvicina dando l’impressione di voler anche lui comprare e poi gli tira giù dalle spalle un lembo del mantello e attacca a tastarlo con cura.