Il giorno dell’esecuzione arrivò, il principe Vibescu si confessò, si comunicò, fece testamento e scrisse ai suoi. Poi venne fatta entrare nella prigione una ragazzina di dodici anni. Ne fu stupito, ma vedendo che li lasciavano soli cominciò a palpeggiarla.
Era affascinante e gli disse in rumeno d’essere di Bucarest e che i giapponesi l’avevano presa nelle retrovie dell’armata russa, dove i suoi genitori erano mercanti.
Le era stato chiesto se voleva essere spulzellata da un condannato a morte rumeno e lei aveva accettato.
Mony le rialzò la gonna e le succhiò la fichetta rigonfia senz’ombra di peli, poi la sculacciò dolcemente mentre lei glielo scrollava. Quindi mise la testa del suo cazzo tra le gambe infantili della piccola rumena, ma non riuscì a entrare. Lei lo assecondava in tutti i modi, dando dei colpi di culo e offrendo ai baci del principe i suoi piccoli seni, tondi come mandarini. Mony entrò in furore erotico e il suo cazzo penetrò infine nella ragazzina distruggendone la verginità, facendone scorrere il sangue innocente.
Allora Mony si rialzò e, non avendo più nulla da sperare nella giustizia umana, strangolò la bimba dopo averle cavato gli occhi mentre ella lanciava spaventevoli grida.
A quel punto i soldati giapponesi entrarono e lo fecero uscire. Un araldo lesse la sentenza nel cortile del carcere che era un’antica pagoda cinese dalla meravigliosa architettura.
Il dispositivo era breve: il condannato doveva ricevere una vergata da ogni uomo appartenente all’armata giapponese di stanza in quel luogo. Tale armata contava undicimila unità.
E mentre l’araldo leggeva, il principe rievocò tutta la sua vita agitata. Le donne di Bucarest, il viceconsole di Serbia, Parigi, l’assassinio in sleeping car, la giapponesina di Port Arthur, tutto ciò gli venne a danzare nella memoria.
Un episodio si precisò. Ricordò il boulevard Malesherbes; Culculine che in abito primaverile trotterellava verso la Madeleine e lui, Mony, che le diceva:
«Se non faccio l’amore venti volte di seguito, che le undicimila vergini o le undicimila verghe mi puniscano».
Venti volte di seguito non l’aveva fatto, ed era venuto il giorno in cui undicimila verghe l’avrebbero punito.
Era a quel punto del suo fantasticare quando i soldati lo scossero e lo condussero davanti ai suoi carnefici.
Gli undicimila giapponesi erano schierati su due file, faccia a faccia. Ogni uomo teneva una canna flessibile. Mony venne spogliato, poi dovette entrare in quel viale crudele fiancheggiato da boia. I primi colpi lo fecero soltanto trasalire. S’abbatterono su una pelle vellutata e lasciarono dei segni rosso scuro. Sopportò stoicamente le prime mille vergate, poi cadde nel proprio sangue col cazzo inastato.
Lo misero allora su di una barella e la lugubre passeggiata riprese, scandita dai colpi secchi delle verghe che s’abbattevano su una carne tumefatta e sanguinante. Ben presto il cazzo non riuscì più a trattenere il getto spermatico e rizzandosi a più riprese sputò il suo liquido biancastro in faccia ai soldati, che sferzarono più forte quel brandello umano.
Al duemillesimo colpo Mony rese l’anima. Il sole era radioso; i canti degli uccelli manciù rendevano più gaio il mattino pimpante. La sentenza fu eseguita fino in fondo e gli ultimi soldati vibrarono i loro colpi di canna su di un ammasso informe, una specie di carne da salsiccia in cui non si distingueva più nulla salvo il viso, che era stato accuratamente rispettato e nel quale i grandi occhi vitrei, aperti, sembravano contemplare la maestà divina dell’aldilà.
In quel momento un convoglio di prigionieri russi passò vicino al luogo dell’esecuzione. Lo si fece fermare per impressionare i moscoviti.
Ma risuonò un grido, seguito da altri due. Tre prigionieri si slanciarono, non essendo affatto incatenati, e si precipitarono sul corpo del suppliziato che aveva appena ricevuto l’undicimillesimo colpo di verga. Si gettarono in ginocchio e abbracciarono, con devozione e fra le lacrime, la testa insanguinata di Mony.
I soldati giapponesi, per un momento stupefatti, si accorsero ben presto che se uno dei prigionieri era un uomo, anzi un colosso, gli altri due erano donne graziose in divisa militare. Erano infatti Cornabœux, Culculine e Alexine che erano stati catturati dopo la disfatta dell’armata russa.
I giapponesi dapprima rispettarono il loro dolore, poi, eccitati dalle due donne, si misero a stuzzicarle. Cornabœux fu lasciato in ginocchio presso il cadavere del suo padrone, mentre Culculine e Alexine, che si dibattevano invano, venivano spogliate.
I loro bei culi bianchi e agitati di graziose parigine apparvero ben presto agli sguardi meravigliati dei soldati. Costoro si misero a frustare dolcemente e senza rabbia quegli incantevoli posteriori che si dimenavano come lune ubriache, e quando quelle deliziose giovinette cercavano di rialzarsi, si vedevano di sotto i peli delle loro gattine col naso in aria.
I colpi fendevano l’aria e, cadendo di piatto ma non troppo forte, segnavano per un istante i culi grossi e sodi delle parigine, ma presto i segni svanivano per riformarsi nel punto in cui la verga aveva nuovamente colpito.
Quando furono eccitate a dovere, due ufficiali giapponesi le condussero sotto una tenda e le fotterono una decina di volte, da uomini resi famelici da una lunghissima astinenza.
Quegli ufficiali giapponesi erano dei gentiluomini di grande casato. Avevano compiuto missioni spionistiche in Francia e conoscevano Parigi. Culculine e Alexine non ebbero difficoltà a farsi promettere il corpo del principe Vibescu che, dopo essersi presentate come due sorelle, avevano fatto passare per loro cugino.
Tra i prigionieri c’era un giornalista francese, corrispondente di un giornale di provincia. Prima della guerra era stato uno scultore non privo di qualche merito, e si chiamava Genmolay. Culculine andò a trovarlo per pregarlo di scolpire un monumento degno della memoria del principe Vibescu.
La flagellazione era l’unica passione di Genmolay. Egli non domandò a Culculine che di fustigarla. Ella accettò e lo raggiunse, all’ora indicata, con Alexine e Cornabœux. Le due donne e i due uomini si misero nudi. Alexine e Culculine si sistemarono su un letto, con la testa in basso e il culo per aria, e i due robusti francesi, armati di verghe, presero a colpirle in maniera che la maggior parte dei colpi cadesse sulle fessure culine o sulle fiche, le quali, a causa della posizione, risaltavano mirabilmente.
Sferzando, si eccitavano a vicenda. Le due donne soffrivano il martirio, ma l’idea che le loro sofferenze stavano procurando a Mony una sepoltura degna le sostenne fino alla fine di quella prova singolare.
Poi Genmolay e Cornabœux si sedettero e si fecero succhiare i grossi cazzi pieni di linfa mentre con le verghe colpivano sempre i posteriori tremolanti delle due graziose ragazze.
Il giorno dopo Genmolay si mise all’opera. Terminò ben presto un monumento funebre sbalorditivo. La statua equestre del principe Mony lo sormontava.
Sullo zoccolo, dei bassorilievi rappresentavano le gesta del principe. Lo si vedeva, da un lato, mentre lasciava in pallone Port Arthur assediata e, dall’altro lato, era rappresentato come un protettore delle arti che aveva studiato a Parigi.
Il viaggiatore che percorre la campagna della Manciùria, tra Moukden e Dalny, scorge all’improvviso, non lontano da un campo di battaglia ancora disseminato d’ossa, una tomba monumentale in marmo bianco. I cinesi che lavorano là intorno la rispettano e la madre manciù, rispondendo alle domande del figlio, gli dice:
«È un cavaliere gigante che protesse la Manciuria contro i diavoli d’Occidente e d’Oriente».
Ma il viaggiatore, generalmente, si rivolge di preferenza a un casellante della transmanciuriana. Quella guardia è un giapponese dagli occhi a mandorla, che veste come un impiegato del PLM. Costui risponde modestamente:
«È un tambur-maggiore nipponico che decise la vittoria di Moukden».
Ma se, curioso di informarsi con più esattezza, il viaggiatore si avvicina alla statua, rimane a lungo pensoso dopo aver letto questi versi scolpiti sullo zoccolo:
Il principe Vibescu quaggiù giace
D’undicimila verghe unico amante
Le undicimila vergini, passante!,
Violare è meglio, fàttene capace.