Mia madre mi maritò, coi beni lasciatimi da mio padre, con uno dei più ricchi proprietari di questa città.
Il primo anno del nostro matrimonio non era peranco scorso, quando io restai vedova e in possesso di tutti i beni di mio marito, che ascendevano a novantamila zecchini. La sola rendita di tale somma bastava a sufficienza per farmi scorrere la vita comodamente.
Un giorno ch’io ero sola, mi fu detto che una donna voleva parlarmi. Ordinai che si facesse entrare; era una persona di età avanzata, mi salutò baciando la terra, e mi disse restando in ginocchio:
— Mia buona signora, vi prego di scusar la libertà che mi prendo venendovi ad importunare, ma la fiducia che ho nella vostra carità mi dà questo ardimento. Ho una figliuola la quale deve maritarsi oggi ed essa ed io siamo straniere, e non abbiamo nessuna conoscenza in questa città. Perciò, mia caritatevole signora, se vi piacesse onorare con la vostra presenza queste nozze, vi saremmo oltre ogni dire obbligate.
Questo discorso mi mosse a compassione e le dissi:
— Mia buona madre, non vi affliggete; vi farò volentieri il piacere che mi chiedete.
La vecchia trasportata dalla gioia a questa risposta, fu più pronta a baciarmi i piedi, ch’io non fui ad impedirnela.
— Mia caritatevole signora — riprese alzandosi — Dio vi darà merito della bontà che avete per la vostra serva, e colmerà il vostro cuore di contento come fate a noi. Non è necessario che vi prendiate subito questo disturbo; basta che veniate meco verso sera nell’ora che verrò a prendervi.
Cominciava a comparire la notte, quando la vecchia giunse con aspetto molto lieto; mi baciò la mano, e mi disse:
— Mia cara signora, le parenti di mio genero, che sono le prime signore della città, son già riunite: se vi piace potete venire, eccomi pronta a servirvi di guida.
Tosto partimmo; ci fermammo ad una porta rischiarata da un fanale, la cui luce mi fece leggere la seguente iscrizione a lettere d’oro: «Questo è l’eterno albergo dei piaceri e della gioia!»
— La vecchia picchiò e fu aperto all’istante.
Condotta al fondo della corte in una gran sala, vi fui ricevuta da una giovane d’impareggiabile bellezza; la quale, dopo avermi abbracciata e fatta sedere accanto a lei sur un sofà ove era un trono di legno prezioso ornato di diamanti:
— Signora — mi disse — voi siete stata qui invitata per assistere a delle nozze e io spero che siano differenti da quelle che v’immaginate. Io ho un fratello, ch’è il più bello ed il più compito fra tutti gli uomini; egli è così preso dal ritratto che ha inteso fare della vostra bellezza, che la sua sorte dipende da voi: sarà sventuratissimo se non avrete pietà di lui.
Dopo la morte di mio marito, non mi era ancor venuto il pensiero di rimaritarmi, ma non ebbi allora la forza di resistere a una così bella donna. Appena ebbi acconsentito col silenzio, la giovane batté le mani, e tosto si aprì un gabinetto, dal quale uscì un giovine dall’aspetto maestoso e di tanta grazia, che mi stimai felice d’aver fatto così bella conquista.
Egli prese posto vicino a me e conobbi dai suoi discorsi essere il marito superiore a quanto me ne aveva detto la sorella.
Quand’essa vide che noi eravamo contenti l’uno dell’altra, batté le mani una seconda volta, ed entrò un Cadì il quale stese il nostro contratto di matrimonio, lo firmò facendolo anche sottoscrivere da quattro testimoni condotti seco. La sola cosa che il novello sposo esigé da me fu ch’io non vedessi né parlassi con alcun altro uomo all’infuori di lui.
Un mese dopo del nostro matrimonio avendo bisogno di qualche stoffa, domandai a mio marito il permesso di uscire a farne la compera. Egli me l’accordò, ed io presi per accompagnarmi la vecchia.
Quando fummo nella via delle merci, la vecchia mi disse:
— Mia buona padrona, poiché cercate stoffa di seta, bisogna ch’io vi conduca da un giovane mercante ch’io conosco.
Io mi lasciai condurre, ed entrammo nella bottega d’un giovine mercante, molto bello. Mi sedei e gli feci dire dalla vecchia di mostrarmi le più belle stoffe di seta che aveva.
Il mercante mi mostrò molte stoffe, una delle quali essendomi piaciuta più delle altre, gliene feci domandare il prezzo.
Egli rispose alla vecchia:
— Io non la vendo a nessun prezzo, ma le ne farò un regalo se vuole permettermi di baciarle la guancia!
Ordinai alla vecchia di dirgli ch’era molto ardito nel farmi simile proposizione; ed ella, invece di obbedirmi, mi disse che la domanda del giovine non era poi tanto importante; non si trattava di parlare, ma solo di presentare la guancia, e sarebbe subito fatto.
Io avea tanto desiderio di quella stoffa, che fui così semplice da seguire il consiglio della vecchia. Ma invece di baciarmi, il mercante mi morsicò fino a farmi uscire il sangue.
Il dolore e la sorpresa furono tali da farmi cadere svenuta. Quando ripresi i sensi sentii la guancia tutta insanguinata. La vecchia che mi accompagnava, estremamente mortificata dell’accidente avvenutomi, procurò di confortarmi, dicendo:
— Mia buona padrona, vi domando perdono; son io la cagione di tale sventura. Vi ho condotta da questo mercante perché è del mio paese, e non l’avrei mai creduto capace di sì grande perversità. Ma io vi darò un rimedio che vi guarirà perfettamente in tre giorni, da non lasciarvi la menoma cicatrice.
Giunsi a casa, ma entrando nella mia stanza caddi di nuovo svenuta. Intanto la vecchia mi applicò il suo rimedio, ed io tornata in me mi posi a letto.
Venuta la notte tornò mio marito. Si accorse che io teneva avviluppata la testa, e me ne domandò la cagione; risposi essere un mal di capo; ma egli prese un lumino, e vedendo ch’io era ferita alla guancia, mi disse:
— Da che proviene questa ferita!
Non poteva risolvermi a confessargli l’accaduto.
Gli dissi che mi era stata cagionata da un venditore di scope che venendo dietro di me sul suo asino colla testa voltata altrove, mi aveva urtata cotanto aspramente, da farmi cadere.
— Essendo così — disse allora mio marito — il sole non si leverà domani, prima che il visir Giafar non sia avvertito di questa insolenza. Egli farà morir tutti i mercanti di scope.
— In nome di Dio, signore, vi supplico di perdonare; essi non sono colpevoli.
— Come dunque! signora — diss’egli — che debbo io credere! Parlate, voglio conoscere dalla vostra bocca la verità!
— Signore — gli risposi — mi venne uno stordi- mento e caddi, ecco il fatto.
A queste ultime parole il mio sposo perdette la pazienza, ed esclamò:
— Ah! ho udite troppe menzogne!
Detto ciò batté le mani, ed entrarono tre schiavi.
— Traetela dal letto — disse loro — e stendetela in mezzo alla stanza.
Gli schiavi eseguirono il suo ordine, e siccome uno mi teneva per la testa e l’altro per i piedi, comandò al terzo di andare a prendere la sciabola, e quando l’ebbe portata, dissegli:
— Troncale il capo in due e va’ a gittarlo nel Tigri, onde serva di pasto ai pesci: questo è il castigo che do alle persone a cui ho accordato il mio cuore, e che mi mancano di fede.
In questo frattempo la vecchia, che era stata nutrice del mio sposo, entrò, e gittandosi a’ piedi per tentar di placarlo, gli disse:
— Per compenso di avervi nutrito ed allevato vi scongiuro di concedermi la sua grazia. Pensate che si uccide soltanto chi uccide.
— Ebbene — diss’egli — per amor vostro le dono la vita; ma voglio che porti dei segni che le facciano ricordare del suo delitto.
A queste parole, uno schiavo, per suo ordine, mi diè con tutta forza sulle coste e sul petto dei colpi con una cannuccia pieghevole, che strappandomi pelle e carne mi fece perdere i sensi.
Indi mi si portò in una casa ove la vecchia ebbe gran cura di me. Dopo quattro mesi guarii, ma le cicatrici mi rimasero.
Appena fui nello stato di camminare e di uscire volli tornare alla casa del mio primo marito, senonché avendola trovata distrutta ricorsi alla mia cara sorella Zobeida, la quale mi ricevette colla sua ordinaria bontà.