Lì mi ringraziò per l’estremo piacere che gli avevo procurato e, scorgendo forse sul mio volto segni di paura e apprensione per la mia pelle, mi assicurò che sarebbe stato pronto a soddisfare ogni mia richiesta, ma che, se avessi proseguito, avrebbe comunque considerato la differenza di sesso, la maggiore delicatezza e l’incapacità di sopportare il dolore. Rincuorata da quelle parole, e toccata nell’orgoglio, decisi di non abbandonare la prova, soprattutto perché sapevo bene che la signora Cole ci stava spiando, dalla sua postazione segreta, ed ero più preoccupata di non poter dimostrare la mia risolutezza che per la mia stessa pelle.
La mia risposta fu adeguata a tale disposizione d’animo, ma il mio coraggio era più nella testa che nel cuore, e come i codardi corrono incontro al pericolo per liberarsi al più presto dell’angoscia di quella sensazione, fui ben felice di accelerare l’esecuzione delle cose.
Non ebbe dunque molto da fare se non slacciarmi la sottoveste e sollevarla insieme alla camicia all’altezza dell’ombelico, dove le fissò alla meglio nel caso le avesse volute sollevare ancora in seguito. Mi ammirò deliziato e alla fine mi fece distendere prona sulla panca, e quando mi sistemai pronta per essere legata, con le mani tremanti protese in avanti, egli mi disse che mi avrebbe risparmiato quella costrizione, e benché volesse mettere alla prova la mia sopportazione, desiderava che fosse del tutto volontaria da parte mia, e che sarei stata libera di sottrarmi al dolore in qualsiasi momento. Non può immaginare quanto mi sentii obbligata da questa concessione e quanto coraggio mi infuse la sua fiducia nei miei confronti, al punto che non m’importava più della sofferenza della mia carne.
La mia parte posteriore, nuda dalla vita in già, era ora esposta alla sua mercé. All’inizio si sistemò a giusta distanza, deliziandosi la vista per la posizione in cui mi trovavo, che lasciava esposti i miei tesori segreti. Poi si gettò su di me e ricoprì le mie parti nude con una profusione di baci, e infine prese la verga e iniziò a colpirmi sulle tenere masse vibranti del mio posteriore, dapprima senza farmi male, quindi, un poco per volta, con più vigore, provocando un rossore di cui mi resi conto a causa del bruciore; mi disse allora che le mie natiche emulavano il rosa naturale delle guance.
Stanco di ammirarle e di giocarvi, riprese a percuotermi più forte, e ancora più forte, al punto che mi fu necessaria tutta la mia sopportazione per non urlare, o almeno per non lamentarmi. Infine, mi colpì con una tale forza che presi a sanguinare: quando se ne accorse, gettò in terra la verga e venne da me per baciare via quelle gocce che pian piano si formavano e mi succhiò le ferite, alleviando di un poco la mia sofferenza. Poi subito mi sollevò, facendomi inginocchiare, a gambe divaricate, di modo che anche la mia parte più tenera, la provincia naturale del piacere e mai del dolore, prendesse parte a quel tormento. Ora mi contemplava con desiderio. Riprese la verga e cominciò a colpirmi in modo che la punta acuminata si posasse proprio lì, facendomi trasalire e dimenare gli arti con violenza; il mio corpo si contorse in un’infinità di posizioni che gli consentirono di allietare il suo sguardo lussurioso da più punti di osservazione. Sopportai ogni colpo senza il minimo lamento: mi concesse un’altra pausa, poi si avventò su quella parte le cui labbra, e ciò che vi era intorno, avevano assaporato quella crudeltà e vi incollò le sue, quasi a chiedere perdono; dopodiché le aprì e le richiuse, le palpò, tastò delicatamente il cespuglio che le ricopriva, e lo fece rapito da un’estasi selvaggia e appassionata a prova del piacere estremo che provava, finché non riprese di nuovo la verga, incoraggiato dalla mia passività e infuriato da quell’inusuale godimento che non riusciva a controllare e che sfogò sulle mie povere natiche. Senza alcuna pietà, quel traditore si avventò con brutalità su di me, tanto che per poco non mi tirai indietro, e alla fine si fermò. Non protestai, né piansi, ma nel profondo del mio cuore disposi che mai più mi sarei sottoposta a un simile trattamento.
Può immaginare in quale stato fossero i miei morbidi cuscinetti di carne, arrossati e sofferenti, orrendamente feriti. Non avevo provato alcun piacere e per quel dolore recente m’imbronciai, mentre il mio carnefice mi riempiva, con grande soddisfazione, di complimenti e carezze.
Non appena mi fui rivestita, la signora Cole ci servì con discrezione la cena, che avrebbe ridestato persino la sensualità di un cardinale, accompagnata da una scelta di vini eccezionali: dopo aver posato le pietanze davanti a noi, se ne andò senza dire una parola né accennare un sorriso, affinché non ci sentissimo interrotti o turbati in quel momento d’intimità dalla presenza di una terza persona.
Ero ancora piuttosto ostile nei confronti del mio macellaio, perché era così che lo consideravo, quando mi accomodai a tavola. Ero a dir poco seccata da quell’aria spensierata e soddisfatta sul suo viso, quasi offesa. Tuttavia, dopo essermi rinfrescata con un bicchiere di vino e dopo che un po’ di cibo (assaporato nel più profondo silenzio) aveva in qualche modo rallegrato il mio spirito, il dolore cominciò infine ad alleviarsi e mi tornò il buon umore. Si accorse di quel cambiamento e disse di aver fatto di tutto per animarlo, se non addirittura esaltarlo.
La cena era da poco terminata quando il mio umore subì un cambiamento improvviso e violento, una sensazione piacevolmente fastidiosa s’impossessò di me e non riuscii più a contenermi. Il dolore delle frustate era ora divenuto un calore pungente, un formicolio così irruento che mi fece sospirare e serrare le cosce, e dimenare sulla sedia in una travolgente irrequietezza. Quegli ardori, ferventi proprio nelle parti su cui si era poco prima scatenata la furia della disciplina, risvegliarono, nel punto opposto, legioni di spiriti infocati, sottili e inebrianti, che divamparono così impetuosi da farmi quasi male. Non c’è da meravigliarsi se in quello stato, divorata dalle fiamme che annientavano ogni pudore e decenza, i miei occhi, ora traboccanti di desiderio, si rivolsero in modo esplicito al mio compagno, che diveniva sempre più piacevole e sempre più necessario per placare quei desideri pressanti.
Il signor Barville non era affatto estraneo a queste situazioni e presto si accorse di quello che mi accadeva e della confusione da cui ero rapita. Spostò dunque il tavolo e diede inizio a un preludio che mi fece ben sperare in un sollievo immediato, e che invece non fu così tempestivo come immaginavo: mentre lo spogliavo e cercavo di provocare e risvegliare quel suo strumento torpido e inattivo, ammise con imbarazzo che non dovevo aspettarmi nulla di buono da lui, a meno che non volessi riprendere in mano il bastone per ridestare il suo languido e inerme potere rammentandogli il dolore delle recenti ferite inflitte, visto che, come una trottola, non era in grado di restare in piedi senza quelle frustate. Mi fu chiaro dunque che avrei dovuto faticare per il mio piacere quanto per il suo, così mi affrettai a esaudire l’ordine. Non ci soffermammo sul cerimoniale: si chinò su una sedia e dovetti colpirlo con veemenza prima che l’oggetto dei miei desideri riprendesse vita e, come per magia, assumesse delle dimensioni imponenti e rimarchevoli. Mi gettò sulla panca affinché ne potessi beneficiare, ma così distesa il dolore che avvolgeva la parte posteriore del mio corpo si risvegliò e non mi fu possibile dar accesso alla testa meravigliosa del suo strumento, non riuscivo quasi a sopportarla. Dunque mi rialzai e provai, piegandomi in avanti e voltandomi di spalle al mio assalitore, a lasciarlo insinuare dal retro. Fu però altrettanto impossibile sopportare il suo membro fiero che si agitava e tentava di penetrarmi, mentre il suo ventre batteva direttamente sulle mie ferite. Cosa potevamo fare? Eravamo entrambi in fiamme e furenti! Il piacere, è risaputo, ha grande inventiva: mi spogliò in un istante, sistemò un cuscino di seta sul tappeto davanti al camino e mi fece adagiare su di esso, supina, tenendomi ferma solo dalla vita. Io, può intuirlo, cercai di favorire le sue manovre: mi prese le gambe e se le mise attorno al collo; avevo il capo sul cuscino, che era ora ricoperto dai miei capelli fluenti, e le braccia per terra. Rimasi così, appoggiata alla testa e alle braccia, sostenuta da quell’uomo di modo che, mentre le mie cosce lo stringevano, tutta la mia figura posteriore fosse esposta al suo sguardo, incluso il teatro del suo sanguinario piacere, il centro della mia metà anteriore che ricopriva di barba l’oggetto della sua ira, ora pronto a soddisfarmi per le pene innanzi inferte. Quella posizione di certo non era la più comoda, ma la nostra immaginazione, in pieno fervore, non ammetteva ritardi: con il massimo ardore e sforzo, inserì la punta dell’ampia testa a forma di ghianda del suo membro e, ancora in preda alla furia che lo aveva stimolato, affondò subito il resto. Riuscì, con una serie di spinte furenti, a dominare e assorbire il dolore e il disagio provocato dalle mie ferite, dalla posizione sconveniente e dalle dimensioni del suo arnese, tramutandoli in un piacere infinito. Il mio spirito vitale e sensazioni più carnali si affollavano ora impetuose verso la meta, dove il premio si raccolse in unico punto e presto la natura venne a offrirmi sollievo da quei colpi violenti e stimolanti. Il mio cavaliere, al massimo dell’intesa, riversò dentro di me una possente iniezione balsamica, che alleviò e mitigò quelle punture fastidiose con una nuova specie di piacere che mi fece impazzire e mutò quel fervore dei sensi in un certo grado di contegno.