Set 072015
 

Mamma Brown, nel frattempo, aveva raggiunto un accordo con quel vecchio caprone viscido, che, come ebbi modo di scoprire in seguito, prevedeva un anticipo di cinquanta ghinee per la libertà di insediarmi, e altre cento nel caso in cui avesse raggiunto la piena soddisfazione dei suoi desideri col trionfo sulla mia verginità; per quanto riguardava me, era solo a discrezione del suo gradimento e della sua generosità. Una volta stipulato quell’iniquo contratto, l’uomo era talmente ansioso di possedermi che insistette per incontrarmi per il tè quello stesso pomeriggio, da solo. A nulla servirono le rimostranze della mia mezzana, la quale disse che non ero abbastanza preparata e matura per tale assalto, che ero troppo acerba e selvatica, dato che ero arrivata nella casa da meno di ventiquattro ore. Ma l’impazienza è caratteristica della lussuria e, nella sua vanità, non gli diede pensiero alcuno la comune ritrosia di una fanciulla in quelle occasioni, così l’uomo rifiutò ogni proposta di rinvio, e la mia terribile prova fu dunque fissata, a mia insaputa, per quella sera stessa.

Durante la cena, la signora Brown e Phoebe si prodigarono in lodi del meraviglioso cugino, dicendo quanto felice sarebbe stata la donna alla quale avesse rivolto le sue attenzioni. In breve, le due pettegole esaurirono ogni retorica nel persuadermi ad accettarle: dissero che il gentiluomo era rimasto molto colpito da me a prima vista, che avrei fatto la mia fortuna se mi fossi comportata bene con lui e non fossi rimasta in disparte, che avrei dovuto avere fiducia nel suo onore, che mi sarei sistemata per sempre e avrei avuto una carrozza con cui viaggiare. Quell’elenco si prestava bene a far perdere la testa a una sciocca ragazza ignorante come me all’epoca, ma per fortuna la mia avversione era già così profonda e radicata che la ragione difese con tutte le sue forze il mio cuore, e l’incapacità di mascherare i miei sentimenti non diede loro speranza alcuna nel successo di quel cliente, almeno non con tanta facilità. Il mio bicchiere veniva rabboccato in continuazione con l’intento, suppongo, di aiutare il mio temperamento focoso nel momento dell’imminente attacco.

Dunque rimasi seduta a tavola a lungo, e verso le sei di sera, dopo essermi ritirata nella mia stanza, il tavolino da tè fu preparato, e di seguito entrò la mia padrona insieme a quel satiro, il cui ghigno e l’odiosa presenza mi confermarono i sentimenti di disgusto che il primo incontro mi aveva scaturito.

Si sedette di fronte a me, e per tutto il tempo in cui bevemmo il tè continuò a mangiarmi con gli occhi in un modo che mi provocava grande disagio e confusione, atteggiamento che egli ancora giustificava con la mia timidezza e la mia poca esperienza nel socializzare.

Finito il tè, la vecchia compiacente signora si congedò per un impegno urgente (che in effetti aveva), e si raccomandò, per il mio bene e anche il suo, che io intrattenessi con gentilezza il cugino fino al suo ritorno. Quindi, con un semplice «la prego, signore, di essere buono e tenero con la dolce fanciulla», uscì dalla stanza, lasciandomi lì, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, impreparata alla sua partenza e incapace di oppormi.

Ora eravamo soli, e all’idea un brivido mi percorse la schiena. Ero così spaventata, senza nemmeno sapere perché e cosa temere, che rimasi seduta sul divano accanto al camino, immobile e pietrificata, senza dar segno di vita, senza sapere in che direzione guardare o come muovermi.

Ma non mi fu concesso molto tempo per restare in quello stato di stordimento: il mostro si gettò accanto a me sul divano, e senza troppe cerimonie e preamboli mi buttò le braccia al collo e mi tirò con forza verso di lui, obbligandomi a ricevere, nonostante i miei sforzi per divincolarmi dalla sua presa, i suoi baci pestilenziali che quasi mi sopraffecero. Trovandomi quasi prossima allo svenimento e inerme, mi strappò lo scialle, e io rimasi scoperta lì davanti, esposta ai suoi occhi e alle sue mani. Sopportai ancora senza batter ciglio, ed egli, incoraggiato dalla mia remissività e dal mio silenzio, dato che non avevo la forza né per gridare né per parlare, tentò di stendermi sul divano, e allora sentii la sua mano sulla parte bassa delle mie cosce nude, che io tenevo ben strette mentre lui tentava di forzarle. Oh allora! Mi destai dalla mia passiva sopportazione e, con un guizzo di vitalità che non si aspettava, mi gettai ai suoi piedi e lo implorai, con tono supplichevole, di non essere violento e di non farmi del male. «Farti del male, mia cara?», rispose il bruto, «Non è mia intenzione. Non ti ha detto la tua padrona che ti amo e che sarò molto generoso con te?»

«Sì, signore, lo ha fatto», gli dissi, «io però non posso amarla, non posso proprio! La prego, mi lasci sola! Sì, la amerò con devozione se mi lascerà sola e se ne andrà». Ma erano parole al vento, perché le mie lacrime, la mia disperazione e il disordine del mio abito si dimostrarono solo degli incentivi, o forse era così in preda al desiderio da non potersi più dominare, perciò, grugnendo e schiumando, rinnovò il suo attacco, mi afferrò e tentò di nuovo di stendermi sul divano. Dopo essere riuscito a bloccarmi, mi sollevò la sottana sulla testa, lasciandomi le cosce nude, che io mi ostinavo a tenere chiuse nonostante i suoi tentativi di forzarle con il ginocchio per aprirsi un varco verso la strada principale. Si era sbottonato il panciotto e i calzoni, ma io sentivo solo il peso del suo corpo su di me mentre giacevo lì, mi dibattevo indignata e intanto morivo di paura. D’un tratto egli si fermò e si ritrasse: ansimava, sbuffava e imprecava, ripetendo «vecchio e brutto!», perché così lo chiamai presa dalla foga di difendermi.

Il bruto aveva, come compresi in seguito, raggiunto l’apice del godimento, preso dal desiderio e dalla lotta, poiché la sua virilità aveva una durata troppo scarsa per permettergli di portare avanti un lungo amplesso, e le mie cosce e la biancheria ricevettero l’effusione.

Quando tutto finì, mi ordinò con tono di disprezzo di alzarmi, e disse che non mi avrebbe più concesso l’onore di un solo pensiero, che quella vecchia cagna poteva pure trovarsi un altro pollo, che non si sarebbe fatto fregare da una contadina inglese che si fingeva una santa, che di sicuro avevo già perso la verginità con qualche bifolco di campagna e che ero venuta in città per vendere il mio latte scremato, e tutta una serie di insulti del genere. Una donna innamorata non ascolta con altrettanta gioia le dichiarazioni d’amore dell’amante come io ascoltai quegli insulti e, poiché l’odio e l’avversione che nutrivo per lui erano così profondi che non potevano aumentare, li considerai solo garanzie contro il rinnovarsi delle sue odiosissime carezze.

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