Il tempo, grande consolatore, mitigò poco a poco la violenza della mie sofferenze, e ne intorpidì la percezione. Ritornai in salute, ma il mio aspetto affranto e languido aveva fatto scomparire il colorito roseo della mia carnagione di campagnola, donandomi un pallore delicato e commovente.
La padrona di casa si era occupata di tutto, e vedendo che non chiedevo nulla, pensò che fossi ormai in grado di servire ai suoi progetti. Un giorno, dopo aver pranzato insieme, si rallegrò per la mia guarigione, attribuendosene il merito, ma quello non fu che un preambolo a un epilogo ben più terribile e meschino. Mi disse: «Signorina Fanny, lei ora si trova in buona salute, e potrà restare in questa casa finché vorrà. Finora non le ho chiesto niente, tuttavia c’è una certa somma di cui sono in debito e a cui deve rispondere». Quindi mi presentò un conto per le spese di affitto, vitto, medicinali, infermeria e altro, la cui somma ammontava a ventitré sterline, diciassette scellini e sei pence. Lei sapeva bene che non possedevo che sette ghinee, lasciatemi dal mio caro Charles. Mi chiese allora cosa pensassi di fare per saldarle quanto le dovevo. Scoppiai in un fiume di lacrime e le spiegai quali fossero le mie condizioni: ero disposta a vendere i pochi abiti che avevo, e per il resto l’avrei pagata appena possibile. Ma la mia disperazione le era troppo propizia perché lei non sfruttasse a pieno per i suoi scopi.
Con freddezza, mi rispose che era dispiaciuta per le mie disgrazie, però doveva badare ai suoi interessi, benché le si stringesse il cuore a dover far rinchiudere una così dolce e giovane creatura in prigione. A sentir parlare di prigione mi si ghiacciò il sangue nelle vene, e dalla paura impallidii come un condannato alla vista del patibolo. Ero così spaventata che per poco non svenni. Ma la padrona, che voleva solo terrorizzarmi un po’ senza ridurmi in uno stato in cui non avrei potuto servire ai suoi scopi, si mise a rincuorarmi dicendo, con un tono più gentile e compassionevole, che sarebbe dipeso solo da me, e non voleva essere costretta ad arrivare a quegli estremi. C’era un amico, il migliore del mondo, che sarebbe stato felice di sistemare le cose in modo soddisfacente per entrambe. Lo avrebbe invitato per il tè quello stesso pomeriggio. Rimasi ammutolita, confusa, terrorizzata.
La signora Jones, vedendomi così impressionata, giudicò fosse il momento adatto per colpire, e mi lasciò sola, a rimuginare in preda alle paure della mia immaginazione, ferita a morte dal terrore di finire in prigione, al punto che, per un istinto di sopravvivenza, sarei stata disposta a tutto pur di evitarla.
Rimasi in quello stato per circa mezz’ora, in preda alla disperazione più profonda. Quando la padrona ritornò, vedendo il mio aspetto cadaverico, assunse subito un falso atteggiamento compassionevole, sempre nel suo interesse, dicendo che le cose non erano poi così brutte come sembravano. Concluse ribadendo che avrebbe fatto venire quel gentiluomo per il tè e che lui avrebbe saputo consigliarmi nel migliore dei modi. Non aspettò neppure una risposta, e uscì per ritornare poco dopo con un degno gentiluomo di cui la signora Jones era la degna mezzana.
Il tale, non appena entrato nella stanza, mi salutò con un inchino, che, per le scarse forze e la mancanza di spirito, ricambiai a malapena. La signora Jones fece gli onori di casa (dato che, per quanto ricordassi, non lo avevo mai visto prima) e prese una sedia per l’ospite e una per sé, tutto senza che i due proferissero parola, mentre io rimasi a fissarli con espressione inebetita.
Il tè venne servito, e la padrona, che non voleva perdere tempo, di fronte al mio silenzio e alla mia timidezza verso quel perfetto sconosciuto, mi disse con tono informale e autoritario: «Avanti, signorina Fanny, su con la vita, non lasci che il dolore sciupi quel bel visino! Suvvia! I dispiaceri non durano in eterno! E qui c’è un vero gentiluomo, che ha saputo di tutti i suoi guai ed è disposto ad aiutarla. Faccia la sua conoscenza e non stia a farsi tanti scrupoli, colga al volo questa opportunità».
A questa “delicata” ed eloquente arringa, il tale si era evidentemente accorto della mia paura e stupore, e che non sapevo come reagire, perché la interruppe rimproverandola per i suoi modi bruschi, finendo con lo spaventarmi anziché convincermi che lui desiderava solo farmi del bene. Sapeva in quali condizioni mi trovavo, sapeva tutto di me e disse che il destino era stato davvero crudele a infierire in quel modo su una creatura così giovane e bella. Da molto tempo nutriva per me un’affettuosa simpatia che lo aveva spinto a rivolgersi alla signora Jones, ma quando aveva saputo che il mio cuore era impegnato aveva perduto ogni speranza di successo finché, messo al corrente delle disgrazie che mi erano capitate, aveva ordinato alla padrona di casa di non farmi mancare nulla. Se non fosse stato costretto a partire per L’Aia a causa di impegni improrogabili, mi avrebbe assistita di persona durante la malattia. Aggiunse poi che al suo ritorno, il giorno precedente, appreso dalla signora Jones che ormai mi ero rimessa, l’aveva pregata di essermi presentato. Disse di essere arrabbiato per il modo con cui quella donna aveva gestito le cose e per dimostrarmi che non approvava tale comportamento e che non desiderava affatto approfittare della mia situazione, avrebbe saldato subito il mio conto con la padrona sotto i miei occhi e mi avrebbe consegnato la ricevuta, lasciandomi poi libera di accettare o meno la sua corte, perché non intendeva davvero costringermi a fare qualcosa controvoglia.
Mentre mi esponeva i suoi sentimenti, osai alzare gli occhi per guardarlo. Era un gentiluomo di bell’aspetto, nel complesso ben fatto, e doveva avere quarant’anni circa. Era vestito con sobria eleganza e portava al dito un grosso diamante che luccicava quando muoveva la mano, e che mi fece capire che doveva essere una persona importante. In breve, poteva passare per quello che si dice un bel moro dal fascino innato.
A tutti quei discorsi risposi solo con lacrime di sollievo che ormai fluivano copiose e che per fortuna mi dispensarono dal rispondergli perché non avrei proprio saputo cosa dire.
Vedendomi in quello stato fu molto commosso, come mi spiegò in seguito, e per farmi tranquillizzare, tirò fuori il borsello e chiese di carta e penna, che la padrona di casa aveva prontamente preparato, e pagò tutto il conto, aggiungendo anche una generosa gratifica a mia insaputa. Poi mi costrinse con dolcezza ad accettare la ricevuta guidando la mia mano verso la mia tasca.
Ero ancora in preda allo stordimento, o alla malinconica disperazione, non riuscivo a riprendermi dai duri colpi che avevo ricevuto. Intanto l’accomodante padrona ci aveva lasciati soli senza che me ne fossi accorta e così mi trovai davanti a quello sconosciuto, inerte e indifferente a tutto.
Ma lui, che non era un novellino in quegli affari, si avvicinò a me con la scusa di confortarmi e si mise ad asciugarmi le lacrime che mi scorrevano sulle guance. Poi si azzardò a baciarmi, e io, da parte mia, non opposi resistenza né lo incoraggiai. Rimasi seduta, immobile, sentendomi come un oggetto di sua proprietà.
Non mi importava nulla del mio povero corpo, non avevo né lo spirito né il coraggio per opporre la benché minima resistenza, e sopportai arrendevole qualunque cosa il gentiluomo volesse farmi. Egli, incurante, iniziò a diventare audace: prima insinuò una mano sotto lo scialle, accarezzandomi il seno, poi, vedendo che non mi ribellavo e che, contro ogni aspettativa, niente gli impediva di giungere subito al soddisfacimento dei suoi desideri, mi prese in braccio e mi portò sul letto, dove mi fece stendere, a sua completa disposizione. Non mi resi conto di quanto stava accadendo, ero come in uno stato di incoscienza. Quando tornai in me, lo trovai ormai dentro, mentre io giacevo passiva e insensibile a qualsiasi sensazione di piacere, come un cadavere. Quando ebbe appagato la sua passione, si levò, e dopo aver ricomposto il disordine dei miei abiti cercò di calmare con pazienza e tenerezza lo scoppio di furore che mi aveva presa, ahimè, troppo tardi, per aver permesso a uno sconosciuto di godere di me su quel letto. Mi strappai i capelli, mi morsi le mani, e mi battei il petto in preda alla follia. Ma la mia rabbia era rivolta solo contro di me, e non pensai mai di attribuirne parte a lui, che ormai consideravo il mio padrone, e quindi lo pregai, con più sottomissione che rabbia, di lasciarmi sola per vivere la mia afflizione in pace. Non volle acconsentire, temendo, disse, che potessi commettere qualche sciocchezza. Ma le passioni violente non durano mai molto, soprattutto quelle delle donne. A quella tempesta seguì un attimo di immobile quiete che sfociò ben presto in un diluvio di lacrime.