Che cosa potevamo fare, noi poveri diavoli, chiusi in quel labirinto di nuovo genere, se non vedere un bagno caldo come l’unica via d’uscita? Così siamo noi a chiedere al portinaio di accompagnarci e, dopo esserci tolti i vestiti che Gitone mette ad asciugare sulla soglia, entriamo nella sala da bagno che guarda caso era così stretta da sembrare una cella frigorifera, con dentro Trimalcione impalato in piedi. Neppure lì riusciamo a evitare le sue schifose esibizioni: stava infatti dicendo che non c’era niente di meglio al mondo che lavarsi senza tanta gente intorno e che in quel punto c’era prima un mulino. Poi, quando si sente senza forze, si siede e, ispirato dall’acustica del locale, gira il suo faccione da ubriaco verso il soffitto e attacca a massacrare le romanze di Menecrate (così almeno dicevano quelli che capivano le sue parole). Gli altri invitati, nel frattempo, correvano lungo la vasca dandosi la mano e cantavano un ritornello facendo un baccano terrificante. Altri, invece, cercavano di raccogliere dal pavimento degli anelli con le mani strette dietro la schiena, o di toccarsi la testa con la punta dei piedi piegandosi con le ginocchia e rovesciandosi all’indietro. Mentre quelli se la spassavano con questi giochetti, noi ci infiliamo nella vasca che era stata preparata per Trimalcione.
Smaltita così la sbornia, ci portano in un’altra sala, dove Fortunata aveva preparato degli altri manicaretti, perché sopra le lampade vedo… pescatori di bronzo, tavole in argento massiccio, calici di terracotta dorata e vino che sgorgava da un otre lì davanti ai nostri occhi. E Trimalcione dice: «Amici, oggi un mio servo si è rasato per la prima volta. E siccome è un tipo parsimonioso e risparmiatore fino alle briciole, gozzovigliamo e stiamocene a tavola fin che fa giorno».
Stava pronunciando queste parole, quando arrivò il canto di un gallo. Turbato da quel suono, Trimalcione fa versare del vino sotto il tavolo e anche sulla lampada. Poi, passandosi l’anello alla mano destra, disse: «Se questo trombettiere ha dato l’allarme non può non esserci un buon motivo: mi sa che sta per scoppiare un incendio o qui intorno qualcuno è lì lì per esalare l’anima. Vade retro da noi! Chi mi trova questo profeta del malaugurio si becca una bella mancia». Detto fatto: lì dal vicinato gli portano un gallo e Trimalcione ordina di cucinarlo. Sventrato da quel genio d’un cuoco che poco prima aveva trasformato la carne di maiale in pesci e uccelli, il gallo viene messo in pentola, mentre Dedalo ci versa dentro dell’acqua bollente e Fortunata trita sopra il pepe con un macinino di legno.
Dopo aver assaggiato un po’ anche di questo manicaretto, Trimalcione si rivolge ai suoi schiavi e dice: «Ma come, voi non avete ancora mangiato? Avanti, sparite e fate venire degli altri a servire». Entra così un nuovo gruppo e, mentre i primi esclamavano: “Statti bene, o Gaio”, i nuovi arrivati fecero eco dicendo: “Salute a te, o Gaio”. Ma da quel momento il nostro buon umore cominciò a guastarsi, perché tra i servi appena venuti c’era un ragazzino niente male che Trimalcione, appena lo vede, gli si butta al collo attaccando a sbaciucchiarselo tutto. Ma Fortunata, facendo valere il suo sacrosanto diritto, comincia a inveire contro Trimalcione, dandogli dello sporcaccione e dell’impunito, incapace addirittura di controllare la sua foia. E, per finire, lo chiama “cane”. Allora Trimalcione, colpito dall’insulto, per tutta risposta, le tira in faccia un calice. Ma lei, come se ci avesse rimesso un occhio, attacca a strillare e si porta le mani tremanti al viso. Chi è anche sconvolta è Scintilla, che si stringe al petto l’amica in lacrime e singhiozzi, mentre un ragazzino pieno di premure le porge una bacinella con dell’acqua fresca e Fortunata ci si piega sopra tra lacrime e gemiti. Trimalcione, invece, senza badarle, prorompe: «Ma non se lo ricorda cos’era questa baldracca di una canzonettara? L’ho tolta io dal marciapiede e ne ho fatto una signora tra le signore. Lei no, si gonfia come una rana, si crede chissà chi: è una testa di legno, altro che una donna! Ma chi è nato in una capanna non si sogna certo un palazzo. E se solo la mia buona stella mi assiste, ci penso io a domare questa Cassandra in ciabatte! E pensare che avrei potuto avere in moglie una donna con un milione di sesterzi, razza di idiota che non sono altro. E tu lo sai che non racconto frottole. Agatone, il profumiere di una vicina di qui, mi prende da parte e mi dice: “Non vorrai mica lasciar morire così la tua stirpe!”. E io, da bonaccione che sono e per non sembrare uno sconsiderato, mi sono dato la zappa sui piedi. D’accordo: ma farò in modo che tu mi venga a cercare grattando la terra con le unghie. Anzi, per capire già fin da adesso il bel guadagno che ci hai fatto, guarda: Abinna, la sua statua non mi va più che la scolpisci sulla mia tomba, perché non ho nessuna intenzione di farmi del sangue cattivo anche da morto. Anzi, perché sappia che con me non c’è da scherzare, le proibisco di baciarmi quando sarò cadavere».
Dopo questa sfuriata, Abinna comincia a implorarlo di calmarsi. «Tutti possono sbagliare. Siamo uomini, non dèi». Le stesse cose gliele ripete anche Scintilla in lacrime, chiamandolo Gaio e scongiurandolo in nome del suo nume tutelare di avere pietà. E Trimalcione, non riuscendo più a trattenere le lacrime, sbotta: «Ti prego, Abinna, e che tu possa godere a lungo dei tuoi soldi, ma sputami in faccia se ho fatto qualcosa di male. Ho baciato un ragazzino tutto per bene, non tanto perché è carino, ma perché è pieno di pregi: sa dividere per dieci, legge i libri a prima vista, coi suoi risparmi si è comprato una tenuta da Trace, e poi una poltrona e due vasi, sempre di tasca sua. Non è dunque giusto che sia la pupilla dei miei occhi? Ma Fortunata non vuole. È così che la mettiamo, razza di spocchiosa? Lo vuoi un consiglio? Cerca di capire il colpo di fortuna che hai avuto, razza di arpia, e non irritarmi più del dovuto, se no finisce che lo vedi di cosa sono capace, zoccola da strapazzo. Eppure mi conosci: se mi ficco in testa qualcosa, è come un chiodo piantato in un muro. Ma pensiamo a noi, piuttosto. E voi, amici, vi prego, su con la vita. Come voi lo sono stato anch’io, ma per la mia bravura sono arrivato fino a qui. È il cuore che fa l’uomo, e tutto il resto sono quisquilie. “Compro bene, vendo bene”. C’è chi vi dirà una cosa, chi un’altra. Sta di fatto che io ho benessere da vendere. E tu invece, cosa continui a piangere, razza di lagna? Bada che se non la pianti, ti faccio piangere io. Allora, come vi stavo dicendo, è stata la mia parsimonia a farmi arrivare così in alto. Quando sono arrivato dall’Asia ero alto come quel candelabro: ogni giorno mi ci andavo a misurare e, per farmi crescere la barba più in fretta, mi ungevo la faccia con l’olio delle lampade. Per quattordici anni sono stato il cocco del padrone, e non venitemi a dire che è un obbrobrio: chi comanda è il padrone. Io comunque mi facevo a mia volta la padrona. Capite benissimo di cosa parlo: ma non aggiungo altro, perché non sono uno che si dà arie».