Qualche giorno dopo la seduta che il cocchiere del fiacre 3269 e la guardia avevano concluso in maniera tanto bizzarra, il principe Vibescu si era appena rimesso dalle emozioni. I segni della flagellazione si erano cicatrizzati ed egli stava mollemente disteso su di un sofà in un salotto del Grand Hôtel. Leggeva, per eccitarsi, i fatti di cronaca del «Journal». Un episodio lo appassionava. Il crimine era spaventoso. Uno sguattero di ristorante aveva fatto arrostire il culo di un giovane lavapiatti, poi l’aveva inforcato, tutto caldo e al sangue, mangiandosi i pezzi rosolati che andavano staccandosi dal posteriore dell’efebo. Alle grida di questo Vatel in erba, i vicini erano accorsi facendo così arrestare il sadico sguattero. La vicenda era narrata con dovizia di particolari e il principe se l’assaporava manovrando dolcemente l’arnese che aveva tirato fuori.
In quel mentre bussarono. Una cameriera fresca e assai graziosa in crestina e grembiule, entrò su ordine del principe. Aveva in mano una lettera e arrossì vedendo la tenuta disinvolta di Mony, che si ricompose.
«Non vorrete andarvene, mia dolce biondina, ho due paroline da dirvi».
E nel frattempo chiuse la porta e, afferrando la bella Mariette per la vita, la baciò avidamente sulla bocca. Dapprima lei fece un po’ di resistenza serrando fortemente le labbra, ma poi, sotto quella stretta, cominciò a lasciarsi andare finché la sua bocca si schiuse. La lingua del principe vi penetrò, subito mordicchiata da Mariette la cui lingua mobilissima venne a stuzzicarne la punta.
Con una mano il giovane le circondava la vita, con l’altra le alzava la gonna. Non portava mutande. La mano s’insinuò fra due cosce che non avrebbe sospettato tanto grosse e ben tornite, essendo lei alta e magra. Aveva una fica molto pelosa. Era ardente e la mano entrò ben presto nell’umido anfratto, mentre Mariette s’abbandonava spingendo il ventre in avanti. La sua mano intanto vagabondava sulla braghetta del principe, che alla fine sbottonò. Ne fece uscire il superbo corno portafortuna che quella aveva solo intravisto quand’era entrata. Si menarono a vicenda, dolcemente: lui pizzicandole il clitoride, lei massaggiandogli col pollice la punta del cazzo. Mony la spinse sul sofà, dove finì seduta. Il principe le sollevò le gambe e se le mise sulle spalle mentre lei si slacciava il corsetto per farne schizzar fuori due seni superbi che lui si mise a succhiare a turno, mentre la penetrava in fica col suo paracarro in fiamme. Ben presto la ragazza cominciò a gridare:
«Che bello, che bello… come sei bravo». Nel frattempo dava dei colpi di culo concitati, poi lui la sentì godere dicendo:
«Tieni… godo… tieni… tieni… prendi tutto».
Subito dopo lei gli afferrò bruscamente il pilone esclamando:
«Da questa parte basta».
Lo estrasse dalla fica e se l’infilò in un altro buco tondo tondo, piazzato poco sotto, come un occhio di ciclope fra due globi carnosi, bianchi e freschi. Il pilone, lubrificato dai succhi femminili, penetrò facilmente e, dopo un vivace sculettio, il principe lanciò tutto il suo sperma nel culo della bella cameriera. Poi estrasse il pilone che fece floc come quando si stappa una bottiglia, e sulla punta c’era ancora sperma, misto a un po’ di merda. Proprio in quell’istante suonarono nel corridoio e Mariette disse: «Devo andare a vedere». E scappò via dopo aver baciato Mony che le mise in mano due luigi. Non appena fu uscita, lui si lavò la proboscide, poi aprì la lettera che era del seguente tenore:
Mio bel rumeno,
che fine hai fatto? Dovresti esserti rimesso dalle tue fatiche. Ricordati di ciò che mi hai detto: «Se non faccio l’amore venti volte di seguito, che undicimila verghe mi castighino». Venti volte non l’hai fatto, tanto peggio per te. L’altro giorno sei stato ricevuto nello scannatoio di Alexine, in rue Duphot. Ma ora che ti conosciamo puoi venire da me. Da Alexine non è possibile. Figurarsi, non può ricevere nemmeno me. Per questo ha un suo scannatoio. Il suo senatore è troppo geloso. Io me ne infischio; il mio amante è un esploratore, e a quest’ora infilerà perle con le negre della Costa d’Avorio. Puoi venire da me, al 114 di rue de Prony. Ti aspettiamo alle quattro.
Culculine d’Ancône
Letta la lettera, il principe guardò l’ora. Erano le undici del mattino. Suonò per far salire il massaggiatore che lo massaggiò e lo inculò correttamente. La seduta lo vivificò. Fece un bagno, e poiché si sentiva fresco e disponibile suonò per il parrucchiere che lo pettinò e lo inculò artisticamente. Poi salì il pedicure-manicure. Questi gli fece le unghie e lo inculò vigorosamente. Allora il principe si sentì proprio a suo agio. Scese lungo i boulevard, fece un pranzo abbondante, poi prese un fiacre che lo portò in rue de Prony. C’era un palazzotto interamente abitato da Culculine. Una vecchia domestica lo fece entrare. L’interno era arredato con gusto squisito.
Fu subito introdotto in una camera il cui letto d’ottone era molto basso e largo.
Il parquet era ricoperto di pelli d’animali che attutivano il rumore dei passi. Il principe si spogliò rapidamente ed era tutto nudo quando entrarono Alexine e Culculine in seducenti déshabillé. Si misero a ridere e lo abbracciarono. Egli cominciò col sedersi, poi attirò a sé le due giovani, una su ogni gamba, ma rialzando loro la sottana, in modo che, pur restando decentemente vestite, potesse sentire i loro culi nudi sulle sue cosce. Poi si mise a masturbarle una per mano, mentre quelle gli stuzzicavano il cazzo. Quando le sentì ben eccitate disse loro:
«E adesso facciamo lezione».
Le fece prender posto sopra una sedia di fronte a sé e, dopo aver riflettuto un istante, disse:
«Signorine, mi sono reso conto che non avete mutande. Dovreste vergognarvi. Filate a metterle».
Quando tornarono, cominciò la lezione.
«Signorina Alexine Mangetout, come si chiama il re d’Italia?»
«Se credi che me ne freghi, non ne so un bel niente!», disse Alexine.
«Presto, sul letto!», gridò il professore.
La fece mettere sul letto in ginocchio, voltata di schiena, le ordinò di sollevare la vestaglia e aprire le mutande dalle quali emersero gli emisferi delle chiappe di un candore abbagliante. Allora si mise a picchiare a mano aperta, e ben presto il sedere cominciò ad arrossire. Questo eccitò Alexine che sculettava, ma ben presto anche il principe non si trattenne più. Passando le mani attorno alla vita della giovane, le impugnò le tette sotto la vestaglia, poi, facendo scendere una mano, le vellicò il clitoride e sentì che la fica era tutta bagnata.
Le mani di lei non erano inattive; avevano impugnato il palo del principe dirigendolo verso lo stretto sentiero di Sodoma. Alexine si era chinata in modo che il suo culo risaltasse meglio, e facilitasse l’entrata del pilone di Mony.
Subito il glande fu dentro, il resto seguì e i coglioni andavano a sbattere sulla parte bassa delle chiappe della giovane. Culculine, che si annoiava, si mise anch’essa sul letto e leccò la fica di Alexine che, presa tra due fuochi, godeva fino alle lacrime. Il suo corpo scosso dalla voluttà si torceva come se soffrisse. Rantoli voluttuosi le sfuggivano dalla gola. Il grosso palo le riempiva il culo e, andando avanti e indietro, andava a urtare la membrana che la separava dalla lingua di Culculine, che raccoglieva i succhi prodotti da questo passatempo. Il ventre di Mony sbatteva contro il culo di Alexine. Ben presto il principe sculettò più forte. Si mise a mordere il collo della giovane. Il palo divenne più gonfio. Alexine non ce la fece più a sopportare tanta felicità; si accasciò sul viso di Culculine che non smise di leccare, mentre il principe, ben insediato nel suo culo, la seguiva nella caduta. Ancora qualche colpo di reni, poi Mony lasciò fiottare il suo sperma. Alexine rimase distesa sul letto mentre Mony andava a lavarsi e Culculine si alzava per pisciare. Preso un secchio, vi si sistemò sopra, in piedi, a gambe larghe, sollevò la vestaglia e pisciò copiosamente, poi, per soffiar via le ultime gocce rimaste fra i peli, mollò un piccolo peto, tenero e discreto, che eccitò notevolmente Mony.
«Cacami in mano, cacami in mano!», le gridò.
Lei sorrise; Mony le si mise dietro, mentre lei abbassava un poco il culo e cominciava a spingere. Aveva delle mutandine di batista trasparente attraverso cui si intravvedevano le sue belle cosce nervose. Lunghe calze nere le salivano fin sopra al ginocchio e modellavano due meravigliosi polpacci dalla linea incomparabile, né troppo grossi né troppo sottili. Mirabilmente incorniciato dallo spacco delle mutande, il culo in quella posizione era in bella evidenza. Mony contemplava affascinato le due chiappe brune e rosa, seriche e animate da un sangue generoso. Vedeva il fondo della spina dorsale un po’ rilevato sotto cui iniziava il solco culino. Dapprima largo, poi si restringeva e diveniva profondo, a mano a mano che aumentava lo spessore delle chiappe, per giungere così fino al buco oscuro e tondo, tutto increspato. Gli sforzi della giovane ebbero dapprima l’effetto di dilatare il buco del culo e di far uscire un po’ di pelle liscia e rosea che si trovava all’interno, a somiglianza di un labbro arrovesciato.
«Caca, dunque!», gridò Mony.
Subito apparve un’avanguardia puntuta e insignificante, che mostrò la testa e rientrò in fretta nella caverna. Si ripresentò poi seguita lentamente e maestosamente dal resto del capitone, che costituiva uno degli stronzi più belli che un intestino avesse mai prodotto.
La merda usciva untuosa e ininterrotta, srotolandosi solenne come una gomena di nave. Pendugliava graziosamente fra le belle chiappe che sempre più si allargavano. Poi dondolò più forte. Il culo si dilatò al massimo, si scosse leggermente e la merda cadde, tutta calda e fumante, nelle mani di Mony che si era teso in avanti per riceverla. Allora gridò: «Resta così!», e chinandosi leccò ben bene il buco del culo impastandosi lo stronzo con le mani. Quindi lo schiacciò con voluttà, poi se lo spalmò su tutto il corpo. Culculine si spogliò per imitare Alexine che si era messa nuda e mostrava a Mony il suo grosso culo trasparente di bionda: «Cacami sopra!», gridò Mony ad Alexine stendendosi per terra. La giovane si accovacciò su di lui ma non completamente. Mony poteva godere dello spettacolo offerto dal suo buco. I primi sforzi ebbero per risultato di far uscire un po’ di sperma che Mony vi aveva deposto, poi venne una sciolta gialla e molle, che cadde a più riprese e, dal momento che quella rideva e si dimenava, la cosa pioveva da tutte le parti sul corpo di Mony che ne ebbe ben presto il ventre ornato da parecchie strisce odorose.
Però Alexine aveva anche pisciato, e il getto caldo era caduto sul palo di Mony, risvegliando i suoi istinti belluini. L’uccello cominciò a sollevarsi a poco a poco gonfiandosi fino al punto in cui, giunto alle sue dimensioni operative, il glande si tese, rosso come una grossa prugna, sotto gli occhi della giovane che, accostandosi, si accovacciò sempre di più, facendo penetrare il palo in erezione fra le sponde pelose della vulva beante. Mony era beato per lo spettacolo. Il culo di Alexine, abbassandosi, metteva in mostra ancor meglio la sua appetitosa rotondità. Il progressivo aprirsi delle chiappe esaltava ancor più quelle curve procaci. Quando il culo fu ben disceso, e il palo completamente inghiottito, si rialzò e diede inizio a un grazioso movimento di va-e-vieni che modificava il suo volume in proporzioni rilevanti, ed era uno spettacolo stupendo. Mony, tutto smerdato, godeva profondamente; presto sentì la vagina restringersi e Alexine disse con voce strozzata:
«Porco, vengo… godo!». E lasciò partire il suo seme. Ma Culculine, che aveva assistito all’operazione e pareva in calore, la tirò via bruscamente da sopra il palo e gettandosi su Mony senza preoccuparsi della merda che la insozzò tutta, s’infilò la proboscide nella fica, con un sospiro di soddisfazione. E cominciò a dare dei terribili colpi esclamando: «Ah!» a ogni colpo di reni. Ma Alexine, indispettita d’essere stata privata del suo bene, aprì un cassetto e ne tirò fuori un frustino fatto di strisce di cuoio. E si mise a colpire il culo di Culculine i cui sussulti divennero ancor più veementi. Alexine, eccitata dallo spettacolo, colpiva duro e secco. Le sferzate grandinavano sul superbo posteriore. Mony, inclinando un po’ la testa di lato, vedeva in uno specchio posto proprio di fronte il gran culo di Culculine alzarsi e abbassarsi. Sollevandosi, le chiappe si schiudevano e la rosetta appariva un istante per sparire durante la discesa, quando le belle chiappe paffute si stringevano. Più in basso le labbra pelose e dilatate della fica inghiottivano l’enorme palo che, durante l’ascesa, si mostrava quasi per intero, e tutto bagnato. I colpi di Alexine arrossarono completamente il povero culo che ora trasaliva di voluttà. Ben presto una frustata lasciò un segno sanguinoso. Entrambi, la fustigatrice e la fustigata, deliravano come baccanti e sembravano godere. Anche Mony incominciò a condividere il loro furore e le sue unghie s’accanirono sulla schiena vellutata di Culculine. Alexine, per poter battere comodamente Culculine, si mise a ginocchioni accanto agli altri due. Il suo grosso culo paffuto e sobbalzante a ogni colpo che lei vibrava si trovò a due dita dalla bocca di Mony.
La lingua di lui tosto vi s’infilò, poi, sotto l’impulso della rabbia voluttuosa, si mise a morderle la chiappa destra. La ragazza lanciò un grido di dolore. I denti erano affondati nella carne e un sangue fresco e vermiglio venne a dissetare la gola riarsa di Mony. Egli lo succhiò gustandone assai il sapore ferroso, leggermente salato. In quel mentre i sobbalzi di Culculine si fecero disordinati. Gli occhi stralunati non mostravano che il bianco. La sua bocca, imbrattata della merda che era sul corpo di Mony, emise un gemito e lei scaricò contemporaneamente a lui. Alexine si lasciò cadere su di loro, spossata e rantolante, digrignando i denti, e Mony, che le applicò la bocca sulla fica, non ebbe che da darle due o tre colpi di lingua per farla godere. Poi, dopo qualche altro sussulto, i nervi si rilassarono, e il trio si distese nella merda, nel sangue e nello sperma.
Si addormentarono in quello stato e quando si svegliarono alla pendola della stanza rintoccavano i dodici colpi della mezzanotte.
«Fermi, ho sentito un rumore», disse Culculine. «Non è la mia domestica, lei è abituata a non fare caso a me. E dovrebbe essere a letto».
Un sudore freddo colava sulla fronte di Mony e delle due ragazze. I capelli si drizzarono loro in testa e dei brividi percorsero i loro corpi nudi e smerdati.
«C’è qualcuno!», disse Alexine.
«C’è qualcuno», approvò Mony.
In quel momento la porta si aprì e la poca luce che proveniva dalla strada notturna permise di scorgere le ombre di due uomini che indossavano un soprabito col bavero rialzato e con la bombetta in testa.
All’improvviso il primo fece scattare la luce di una torcia elettrica che teneva in mano. Il bagliore rischiarò la stanza, ma i due scassinatori non s’accorsero subito del gruppo steso a terra.
«Tira un’aria pesante», disse il primo.
«Entriamo lo stesso, dev’esserci un bel malloppo in quei cassetti», replicò il secondo.
In quell’istante Culculine, che si era trascinata verso l’interruttore della luce, l’accese illuminando all’improvviso l’ambiente.
Gli scassinatori rimasero interdetti di fronte a quelle nudità:
«Merda», disse il primo, «parola di Cornabœux, ne avete di gusto».
Era un colosso bruno dalle mani pelose. La barba incolta lo rendeva ancor più patibolare.
«Che goduria», disse il secondo, «a me la merda non dispiace, porta buono».
Era un avanzo di galera guercio che mordicchiava una cicca spenta.
«Proprio così, Chaloupe», gli rispose Cornabœux, «ci ho appena sguazzato in mezzo e penso che, come prima botta, m’infilerò questa bambola. Ma prima sistemiamo il signorino».
E gettandosi su Mony spaventato quegli scassinatori lo imbavagliarono e gli legarono braccia e gambe. Poi, volgendosi verso le donne tremanti, ma piuttosto divertite, Chaloupe disse:
«E voi, bambole, non fate le scontrose, sennò lo dico a Prosper».
Aveva in mano una canna e la diede a Culculine ordinandole di colpire Mony con tutte le sue forze. Poi, mettendosi dietro di lei, fece saltar fuori un affaruccio sottile come un mignolo, ma molto lungo. Culculine cominciava a divertirsi. Chaloupe prese a schiaffeggiarle le chiappe, dicendo:
«Eccoci qui! Mia bella culona, ti toccherà suonare il mio flauto, perché ho un debole per gli ambienti melmosi». Maneggiava e palpava quel gran culo vellutato e, dopo averle passato una mano sul davanti, le stuzzicava il clitoride, poi, tutto a un tratto, vi cacciò la pertica lunga e sottile. Culculine incominciò a muovere il didietro picchiando Mony che, non potendo né difendersi né gridare, si contorceva come un verme a ogni colpo di canna, che gli lasciava un segno dapprima rosso e ben presto violaceo. Poi, man mano che l’inculata procedeva, Culculine eccitata picchiava più forte gridando:
«Tieni, porco, per la tua sporca carogna… Chaloupe, fammelo entrare bene in fondo il tuo scopino».
Il corpo di Mony fu in breve tutto sanguinante.
Nel frattempo Cornabœux aveva afferrato Alexine e l’aveva gettata sul letto. Cominciò col mordicchiarle i capezzoli che presero a indurirsi. Quindi scese fino alla fica e se la prese tutta in bocca mentre le tirava i leggiadri peli del pube, biondi e ricciuti. Si rialzò ed estrasse il suo palo enorme ma corto, dalla testa paonazza. Rivoltò Alexine e si mise a sculacciarne il grosso culo rosa; di quando in quando le passava la mano nel solco culino. Poi strinse la ragazza col braccio sinistro in modo che la sua fica fosse alla portata della mano destra. Con la sinistra la teneva per la barbetta… e non è che fosse un gran piacere. Alexine si mise a piangere e i suoi gemiti aumentarono quando Cornabœux iniziò a mulinare sventole. Le sue grosse cosce rosa si scuotevano e il sedere fremeva ogni volta che la grossa zampa dello scassinatore s’abbatteva. Con le manine libere lei si mise a graffiarne la faccia barbuta. Gli tirava i peli di sopra come lui, a lei, tirava la barba della fica.
«Così va bene», disse Cornabœux, e la rigirò.
Allora Alexine vide lo spettacolo di Chaloupe che inculava Culculine, che colpiva Mony, già tutto sanguinante, e questo la eccitò. La grossa mazza di Cornabœux batteva contro il suo posteriore, ma andava a vuoto, colpendo o troppo a destra o troppo a sinistra, oppure troppo in alto o troppo in basso, ma quando trovò il buco, pose le mani sui fianchi lisci e rotondi di Alexine e la tirò a sé con tutte le forze. Il dolore causato da quell’enorme pilone che le sfondava il culo l’avrebbe fatta urlare di dolore se non fosse già stata eccitata da tutto ciò che stava accadendo. Non appena lui ebbe fatto entrare il dardo nel culo, Cornabœux lo estrasse, poi, rivoltando Alexine sul letto, le conficcò il suo strumento nel ventre. L’aggeggio entrò a gran fatica a causa della sua enormità, ma quando fu dentro, Alexine incrociò le gambe sui fianchi del ladro e lo tenne così stretto che se anche avesse voluto sfilarsi non avrebbe potuto.
Il duetto culino fu travolgente.
Cornabœux le poppava le tette e con la barba la solleticava eccitandola; lei infilò una mano nei pantaloni del ladro e gli ficcò un dito nel buco del culo. Poi si misero a mordersi come bestie selvagge dando gran colpi di reni. Scaricarono freneticamente. Ma il palo di Cornabœux, strangolato dalla vagina d’Alexine, ricominciò subito a rizzare. Alexine chiuse gli occhi per assaporare meglio il secondo amplesso. Lei scaricò quattordici volte contro le tre di Cornabœux. Quando riprese i sensi, si accorse di avere la fica e il culo sanguinanti. Erano stati lacerati dall’enorme pilone di Cornabœux. E scorse Mony, che giaceva sul pavimento, scosso da tremiti convulsi. Il suo corpo non era più che un’unica piaga.
Culculine per ordine del guercio Chaloupe gli succhiava la proboscide, in ginocchio davanti a lui:
«Avanti, in piedi, puttanella», urlò Cornabœux.
Alexine obbedì e lui le mollò un calcio nel culo che la fece stramazzare su Mony. Cornabœux le legò braccia e gambe e la imbavagliò senza badare alle sue suppliche, poi, afferrata la canna, si mise a zebrare di colpi il suo bel corpo di falsa magra. Il culo trasaliva a ogni nerbata, dopo furono la schiena, il ventre, le cosce, i seni che ricevettero la gragnuola di colpi. Sgambettando e dibattendosi Alexine si ritrovò sulla picca di Mony che era dura come quella d’un morto e che, approfittando dell’incontro casuale con la fica della giovane, la penetrò. Cornabœux raddoppiò i colpi e picchiò indistintamente su Mony e su Alexine che godevano in modo atroce. Ben presto la gradevole pelle rosa della biondina non fu più visibile per il sangue che colava sotto quelle sferzate. Mony era svenuto, lei svenne poco dopo. Cornabœux, il cui braccio incominciava a essere stanco, si volse verso Culculine che cercava di far venire Chaloupe. Ma quel bell’elemento non voleva saperne.
Cornabœux ordinò alla bella bruna di allargare le cosce. Fece molta fatica a incoccarglielo da dietro. Lei soffrì molto, ma stoicamente, senza smetter di succhiare il palo di Chaloupe. Quando Cornabœux ebbe preso possesso della fica di Culculine le fece alzare il braccio destro e le mordicchiò il ricco cespuglio di peli che aveva sotto l’ascella.
Quando arrivò l’orgasmo, fu così intenso che Culculine svenne addentando violentemente il pilone di Chaloupe. Costui lanciò un terribile grido di dolore ma il glande era ormai troncato. Cornabœux, che aveva appena scaricato, sfilò bruscamente la sua daga dalla fica di Culculine che cadde a terra svenuta. Chaloupe esanime perdeva tutto il suo sangue.
«Mio povero Chaloupe», disse Cornabœux, «sei fottuto, è meglio che crepi subito».
Ed estraendo un coltello gli vibrò un colpo mortale scuotendo sul corpo di Culculine le ultime gocce di sperma che gli colavano dal cazzo. Chaloupe morì senza dire «be’».
Cornabœux si rivestì a puntino, spazzolò tutto il denaro che era nei cassetti e nei vestiti e prese anche gioielli e orologi. Poi guardò Culculine che giaceva a terra priva di sensi.
«Bisogna vendicare Chaloupe», si disse. Ed estraendo nuovamente il coltello, vibrò un colpo terribile tra le chiappe di Culculine ancora svenuta. Cornabœux le lasciò il coltello piantato nel culo. Agli orologi suonarono le tre di mattina. Poi uscì com’era entrato, lasciando i quattro corpi stesi sul pavimento della stanza piena di sangue e di sperma in un indicibile disordine. In strada, si diresse allegramente verso Ménilmontant canticchiando:
Un tafanario ha da saper di fogna
mica d’acqua di Colonia…
e anche:
Coso a fanale
coso a fanale
accendi accendi il mio piccolo coccale.