Furono prenotati due posti, uno per Esther e uno per me, sulla carrozza della Chester-Waggon. Tralascerò di descrivere l’inutile scena di addio, e tralascerò anche quello che mi successe durante il viaggio, come le occhiate bramose che mi rivolse il conducente o le intenzioni di qualcuno degli altri passeggeri nei miei confronti, che però furono scoraggiate dall’attenta sorveglianza di Esther, la quale, a onor del vero, si occupò di me come una madre, pur tassandomi per la sua protezione addebitandomi le spese di viaggio, che tuttavia mi accollai con grande piacere poiché mi consideravo più che obbligata nei suoi confronti.
La donna prestò molta attenzione affinché non ci facessero pagare più del dovuto e non ci imbrogliassero, e gestì il denaro con la massima parsimonia: non era suo costume sperperarlo.
Nonostante fosse un tiro a sei, era piuttosto tardi, una sera d’estate, quando raggiungemmo la città sul nostro lento convoglio. Passando per le ampie strade che conducevano alla locanda, il rumore delle carrozze, la fretta, la folla di passanti, il nuovo scenario di negozi e case mi meravigliarono facendomi subito perdere la testa.
Ma s’immagini la mia mortificazione e sorpresa quando arrivammo alla locanda e, una volta scaricati i bagagli, la mia compagna di viaggio e protettrice, Esther Davis, la quale per tutto il tragitto mi aveva ricoperta di attenzioni e non mi aveva in nessun modo preparata al terribile colpo che stavo per ricevere, mia unica amica e consigliera in quel luogo sconosciuto, assunse d’un tratto un atteggiamento freddo e distaccato, quasi temesse che io potessi diventare un peso.
Allora, invece di continuare a offrirmi il suo aiuto e i suoi uffici, su cui avevo fatto affidamento e di cui non avevo mai abusato, si considerò, a quanto pare, libera da ogni impegno per avermi condotta sana e salva alla fine del viaggio; vedendo che con molta naturalezza si apprestava ad abbracciarmi per prendere commiato, in preda alla confusione e allo stupore, non ebbi la prontezza di spirito per confidarle le mie speranze e aspettative su ciò che avrei potuto ottenere dalla sua esperienza e conoscenza del luogo in cui mi aveva condotta.
Mentre me ne stavo lì imbambolata e muta, comportamento che lei dovette attribuire soltanto alla preoccupazione per la separazione, questo pensiero fu alleviato dall’arringa che mi fece: ora che eravamo giunte sane e salve a Londra, era obbligata a riprendere servizio, ed era meglio che anch’io mi cercassi un lavoro il prima possibile, e non dovevo preoccuparmi di non trovarlo perché lì c’erano più case che parrocchie, e mi sarei dovuta recare a un ufficio di collocamento. Se lei avesse sentito di qualche opportunità me lo avrebbe comunicato, nel frattempo avrei dovuto cercarmi una camera in affitto e informarla su dove farmi rintracciare. Poi mi augurò buona fortuna e mi raccomandò di avere la grazia di restare sempre onesta e di non disonorare la mia famiglia. A quel punto si accomiatò e mi affidò a me stessa con la stessa leggerezza con cui ero stata affidata a lei.
Lasciata sola, senza risorse né amici, iniziai ad avvertire molto più forte la pesantezza di quella separazione avvenuta in una stanzina della locanda. Non appena mi voltò le spalle, a causa dell’afflizione che provai in quella situazione di smarrimento, scoppiai in lacrime, alleviando così le pene del mio cuore, pur non avendo la benché minima idea di cosa ne sarebbe stato di me.
Arrivò un cameriere che mi chiese con modi bruschi, rendendomi ancora più incerta, se mi servisse qualcosa, e io gli risposi con innocenza di no, solo desideravo sapere dove potevo trovare una sistemazione per la notte. Mi rispose che sarebbe andato a chiamare la padrona, la quale infatti arrivò e mi disse con freddezza, senza curarsi per nulla dello stato di angoscia in cui mi trovò, che avrei potuto avere un letto per uno scellino e che, supponendo che io avessi delle conoscenze in città (a quel punto feci un lungo sospiro in vano!), la mattina seguente me ne sarei dovuta andare per la mia strada.
È incredibile quali magre consolazioni riesca a trarre la mente umana anche nei momenti di grande afflizione. La sola certezza di un letto sul quale riposare per quella notte calmò le mie ansie, e provando vergogna nell’informare la padrona della locanda che non avevo conoscenti in città ai quali rivolgermi, mi ripromisi di recarmi per prima cosa la mattina seguente a un ufficio di collocamento, le cui coordinate Esther aveva lasciato scritte sul retro di una ballata. Ero convinta che là avrei ricevuto le informazioni su un posto, adatto a una ragazza di campagna come me, dove mi sarei dedicata a qualsiasi occupazione prima che il mio piccolo gruzzolo si fosse esaurito. E pensare che quel bel tipo di Esther mi aveva ripetuto tante volte che ella stessa me lo avrebbe procurato; nonostante ci fossi rimasta male per come mi aveva abbandonata, non smisi del tutto di darle fiducia, poiché iniziai a pensare, nella mia ingenuità, che il suo comportamento fosse normale, e che era stata la mia ignoranza della vita a metterla in principio sotto una luce diversa.
Come stabilito, la mattina seguente indossai gli abiti più puliti e decorosi che il mio guardaroba di campagna poteva permettermi, e dopo aver lasciato il baule alla padrona della locanda, con speciale raccomandazione, mi avventurai fuori da sola, e senza più difficoltà di quante non ne possa incontrare una ragazza di campagna, appena quindicenne, per la quale ogni insegna o negozio rappresentava una trappola, giunsi all’ufficio di collocamento che cercavo.
Era gestito da un’anziana signora che se ne stava seduta all’accoglienza, con un libro davanti a sé, tenuto in perfetto ordine, e numerosi rotoli di carta spiegati che riportavano le richieste di impiego.
Mi avvicinai a quell’importante personaggio senza sollevare lo sguardo o guardare le persone intorno a me, le quali erano in attesa per il mio stesso motivo, quindi feci una lunga riverenza e mi lanciai in un farfugliamento sulla mia situazione.